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CITTADINI DEL MONDO?
di Martina Manescalchi
martedì 03 aprile 2007
Seconde generazioni di immigrati in Italia: fra inserimento e tradizione
Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo
Mohandas Karamchand Gandhi
Vengono definite seconde generazioni i figli degli immigrati nati in Italia o giunti prima dei sei anni. Nel 1992 i nati in Italia sono stati seimila, cinquantunomila nel 2005 e soltanto nel 2006 quarantamila minorenni si sono ricongiunti con i propri genitori. Un fenomeno in forte espansione, dunque. Una realtà nuova per l’Italia, a differenza di altri paesi europei come la Francia e la Gran Bretagna, che la vivono da molto più tempo ed in cui è già ben sviluppata e nota una sociologia delle seconde generazioni. La volontà di inserimento la fa da padrone ovunque, specie tra i ragazzi provenienti da famiglie culturalmente più avanzate. Dall’altra parte, fenomeni come le rivolte nelle banleiue parigine e gli attentati di Londra, figli di un attaccamento, idealizzato e morboso, alle proprie radici culturali e dei pregiudizi che generano un disagio quotidiano, serpeggiante nei banchi di scuola, nelle situazioni di confronto. Il nostro paese è pronto ad affrontare tale realtà? Gli immigrati di seconda generazione riescono ad inserirsi nella società italiana? In particolare, come i giovani musulmani vivono il rapporto con la religione?
Come avviene in ogni contesto migratorio, anche in Italia le prime generazioni si differenziano dalle seconde nell’approccio alla cultura di appartenenza. Mentre i genitori tendono a replicare le ritualità ed i luoghi di culto, i giovani tendono a vivere la propria spiritualità in maniera più personale, sviluppando una certa autonomia sia rispetto alle famiglie che alla società che li accoglie. Frequentando quotidianamente coetanei italiani, sottoposti ad una molteplicità di proposte etiche, si pongono problemi verso argomenti considerati tabù dai propri padri e verso la religione stessa. Gli imam spesso non sono in grado di rivolgersi a questi giovani, di usare il loro linguaggio, ne ignorano il contesto e si creano situazioni di crisi o mera autorefenzialità. Molti di questi ragazzi non hanno mai messo piede nella terra d’origine e se in certi casi il riconoscimento delle proprie radici diventa un’ancora a cui aggrapparsi contro le difficoltà di socializzazione ed il pregiudizio, in altri viene visto come un pesante fardello imposto dalla famiglia in cui il giovane stenta a riconoscersi.
Interessante per analizzare il livello di integrazione di questi nuovi soggetti sociali è il testo a cura di Giovanni G. Valtolina ed Antonio Marazzi Appartenenze multiple. L'esperienza dell'immigrazione nelle nuove generazioni (ISMU/Franco Angeli, Milano, 2006). Si tratta di una raccolta di saggi che si propone di indagare lo stato attuale dell’inserimento in Italia dei minorenni figli di immigrati attraverso ricerche ed analisi sociologiche e psicologiche. Il punto di partenza è proprio il limite della definizione di seconde generazioni, per poi toccare argomenti come la scuola, il lavoro, l’identità. Quali scenari per l’Italia, dopo il fallimento dei modelli di integrazione anglosassone e francese?
Il libro si apre con un bilancio numerico sulla crescita costante dei minori stranieri residenti in Italia: le percentuali più alte (oltre il 22%) vengono riscontrate in Veneto, Emilia Romagna e Lombardia e comunque il numero di minori è aumentato sensibilmente in tutte le regioni, con incidenza maggiore da parte dei paesi della ex-Jugoslavia, Marocco, Ghana, Pakistan, Burkina Faso, Turchia, Cina.
Fondamentale il saggio di Valtolina su modelli di integrazione e sviluppo dell'identità, dove l’autore affronta i delicati temi della crisi di identità e della conseguente sofferenza generata nei figli di immigrati durante l’età adolescenziale parlando di lacerazioni dell'Io, diviso tra istanze culturali e affettive in conflitto. Tale lacerazione produrrebbe tre differenti atteggiamenti:
a) resistenza culturale o "identità reattiva"
b) assimilazione;
c) marginalità;
d) doppia etnicità.
Valtolina si sofferma inoltre su come il fatto stesso di essere migrante possa nuocere all’equilibrio psicologico della persona, a causa dell'adesione ad una società e una cultura che maschera la divaricazione tra piano ideale, che propone il mito della eguaglianza delle possibilità e piano reale, che crea e riproduce, invece, concreti sistemi discriminatori dunque, dall'essere inseriti in un circuito di aspettative che risulteranno inevitabilmente frustate.
Graziella Giovannini, nel suo contributo, attribuisce alla scuola il primato nella formazione e nella socializzazione. L’ambiente scolastico interverrebbe infatti, secondo la studiosa, in maniera più radicale della famiglia e di qualunque forma di associazionismo. E’ proprio la scuola ad impartire le prime regole di convivenza, l’orientamento verso il mondo del lavoro, il senso di multicultura. Solamente da pochi anni la scuola italiana ha cominciato ad interrogarsi sulle cause di minor riuscita degli alunni stranieri rispetto agli italiani, che sarebbero principalmente dovute agli spostamenti dai propri paesi ma anche alla mobilità delle famiglie sul territorio nazionale in cerca di migliori opportunità lavorative.
Il saggio di Antonio Marazzi evidenzia come, non ostante i ragazzi autoctoni ed i ragazzi figli di immigrati condividano lo stesso scenario sociologico in quanto coetanei, i figli di immigrati manifestino quelle che vengono definite identità differite: alcuni tratti della personalità emergerebbero cioè in ritardo e a fatica tra gli adolescenti di origine immigrata. Le esperienze di altri Paesi mostrano l’immagine di questi ragazzi oscilli tra la condizione transitoria del giovane e quella compattata di minoranza, la cui principale conseguenza sarebbe il comportamento dei ragazzi, che reinventano una tradizione mescolando elementi della cultura dei genitori conosciuta in maniera mediata e di seconda mano, con gli stili di vita dei coetanei italiani con i quali sono a contatto tutti i giorni.
Del difficile inserimento nel mondo del lavoro si occupa il saggio di Laura Zanfrini. Secondo l'autrice, non ostante sia radicalmente cambiato il panorama e siano totalmente scomparsi sia il fenomeno del reclutamento di mano d’opera straniera per il lavoro nelle fabbriche sia l'inserimento degli immigrati nei settori dequalificati del mondo del lavoro, sopravvivrebbe ancora quella che definisce la trasmissione intergenerazionale degli svantaggi sociali, tramandata di padre in figlio. La differenza sta nel fatto che i figli non si sentono più ospiti ma cittadini e le loro aspettative per il futuro sono migliori e più ambiziose rispetto a quelle dei genitori che spesso si accontentavano di un lavoro degradante o subalterno. Troppo spesso però queste legittime ambizioni si scontrano con una discriminazione nel mondo del lavoro che si presenta fondamentalmente sotto tre aspetti: nell'assunzione, nelle condizioni di lavoro e nei percorsi di carriera. L'ingresso delle seconde generazioni nel mercato del lavoro metterà in discussione il precario equilibrio che regge la convivenza interetnica, conclude l’autrice.
L’esperienza della mobilità forma dunque, fino ad arrivare a farne parte, il carattere di questi ragazzi, sempre più camaleontici dal punto di vista culturale e religioso. L’Italia, che non può permettersi di perdere l’appuntamento con l’integrazione delle generazioni del futuro e con la nascita di una società realmente cosmopolita, non ha ancora sviluppato un proprio paradigma. Non facendosi tentare da derive razziste, sviluppando un’autentica laicità, operando efficace opera di mediazione culturale. In questo senso potrebbero venirci incontro sia le esperienze degli altri paesi sia il concetto, ancora in fieri, di cittadinanza europea che porta con sé il rispetto per una variegata pluralità di culture.