L'11 gennaio esce
"Cous Cous" del franco-tunisino Abdel Kechiche, una seconda generazionie francese, premio speciale della giuria all'ultima Mostra di Venezia
Cita:
[url=http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/spettacoli_e_cultura/cous-cous/cous-cous/cous-cous.html]"Nel mio film l'omaggio a De Sica
per raccontare gli immigrati"
di MARIA PIA FUSCO[/url]
ROMA - Con il titolo Cous cous l'11 gennaio esce il film di Abdellatif Kechiche - in originale La graine et le mulet - gran premio della giuria a Venezia, un premio che provocò un'infelice e irritata reazione dell'autore, francese (nato a Nizza) di origine tunisina. "Forse ho esagerato, mi dispiace, ma ero sicuro di vincere il Leone, me lo dicevano tutti. Ma amo Venezia, con Tutta colpa di Voltaire vinsi il premio per l'opera prima, spero di portarci il prossimo film", dice Kechiche, che, dopo il successo di Cous cous in Francia appare rilassato e gentile.
Cous cous è la storia di Slimane Beiji, che, sfiancato da anni di pesante lavoro portuale, si sente finito, eppure animato da un sogno: recuperare una vecchia barca e trasformarla in un ristorante. Non ha soldi, la burocrazia è un ostacolo, ma con l'aiuto della numerosa famiglia allargata, il sogno potrebbe realizzarsi.
Secondo Kechiche, è il suo film più personale. "Mi tocca profondamente, è finzione, ma parla delle mie origini, di me, di mio padre che mi ha ispirato il film, volevo che facesse il protagonista, simbolo di una generazione venuta in Francia per cercare un futuro migliore per i figli, sopportando umiliazioni e pregiudizi. Purtroppo, mentre finivo La schivata mio padre è morto. Volevo rinunciare, finché ho trovato Habib Boufares, un amico di papà".
Che rapporto c'è tra la sua generazione e quella di suo padre?
"I padri hanno lavorato tanto, ma non avevano parola, non avevano la capacità e il diritto di esprimersi, sono rimasti molto legati alla cultura di origine; quelli delle mia età, nati e cresciuti qui, hanno cominciato a sfidare la Francia, reclamando parola e diritti, ci sentiamo a cavallo tra due mondi. E nel film cerco di raccontare le difficoltà del passaggio da un ambiente sociale operaio ad uno più elevato, economicamente e soprattutto culturalmente".
Cibo, musica, donne: nel film si respira sensualità.
"Il rapporto tra cibo e sensualità fa parte della vita, ho voluto renderlo nei gesti quotidiani della preparazione, nel piacere di ritrovarsi e di godere tutti insieme di un pasto preparato con amore. Ho avuto la fortuna di un cast femminile magnifico. Sul set c'era un tale realismo tra le attrici che lavoravano nella cucina che avevo l'impressione di essere tornato all'infanzia".
Lei usa attori professionisti e non: ci sono autori che l'hanno influenzata?
"Sono cresciuto vedendo cinema mediterraneo e il primo amore non si dimentica, gli italiani sono sempre nel mio cuore, da loro ho imparato la verità e la semplicità. Nel film la citazione di Ladri di biciclette è un atto d'amore e di gratitudine".
C'è un filo rosso che lega i suoi film?
"L'ambiente è sempre quello in cui sono cresciuto, il tema che ricorre è quello di personaggi che faticano ad uscire dall'emarginazione e a liberarsi dalla diffidenza che spesso sfiora il razzismo".
Lei ci è riuscito.
"Non finché mi definiscono regista arabo-francese. Vorrei essere regista e basta".
(4 gennaio 2008)