Clementina Sandra Ammendola ora abita a Torino. Prima a Vicenza. Prima ancora a Buenos Aires (sua città natale). Poi non lo sa.
Fa la sociologa della migrazione, la educatrice psichiatrica, scrive, conduce laboratori di scrittura.
Ha una gatta, Negra, vicentina di nascita che capisce la lingua argentina e il dialetto torinese, a volte.
Da quando sta invecchiando, Clementina Sandra, non trova un parrucchiere di fiducia per tagliarsi i capelli: tutti vogliono prima, farle il colore e poi farle il taglio. Allora migra tra i Saloni dei Parrucchieri e i suoi capelli diventano sempre più lunghi. Ha pubblicato «Lei che sono io» (Sinnos)
Ci sono volte, tutte le volte
Clementina Sandra Ammendola
«Insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me».
Antonio Gramsci.
Ci sono volte, anche ora, in cui i ricordi mi portano a raccontare delle storie. Tutte le volte ho molti ricordi.
Ricordo, le storie partono - in qualche modo - dal paese dove sono nata, l'Argentina e dall'anno in cui decido di fare la migrola, il millenovecento ottantanove. Migrola è chi vive e studia la migrazione per necessità; chi si sposta nei ricordi; chi percorre e mantiene viva la memoria. Forse migrare è una sfida ingegnosa, mutante e senza fine. Forse si è migrola per sempre.
Ricordo, il presidente Alfonsín dice «la casa è in ordine», e dice: «Buona Pasqua». Per casa intende il paese, credo. E i militari tornano buoni, per un po', nelle caserme e il presidente, Raúl Alfonsín, continua a dire che «con la democrazia si mangia, si cura e si educa». Ma si producono i primi saccheggi nei supermercati e le persone rompono i vetri dei negozi e si portano via, senza pagare, lo zucchero, la carne, il pane, i vestiti, e tutti proviamo un senso di panico: la democrazia è ancora precaria.
Il governo argentino sembra cadere a pezzi, nel millenovecento ottantanove. E con il modo di governare di Alfonsín non si educa, né si cura e neppure si mangia. Dopo qualche mese il presidente - sempre Alfonsín - dà le dimissioni e non completa il suo mandato e non conclude le sue promesse.
Ricordo, la povertà moltiplicata. Il candidato dott. Carlos Saul Menem dice «síganme, no los voy a defraudar» e parla della Rivoluzione Produttiva, di giustizia sociale e di nuovi posti di lavoro che non si capisce bene. Non si capisce bene perché i posti di lavoro non ci sono e si comincia a privatizzare tutto: la compagnia di telefono, le ferrovie, la luce, la scuola, l'energia nucleare, la medicina, e altre cose ancora; e si privatizza a prezzo di costo. Chi compra, e sono imprese di paesi stranieri, fa un affare, paga poco e chi vende, lo Stato argentino, incassa pochi soldi e non può creare nuovi posti di lavoro. Dicono che è un sistema crudele ma efficace nello stesso tempo ma, per adesso, non si capisce bene.
Ricordo, molti argentini parlano di partire. E gli argentini di origine italiana, come me, hanno due cittadinanze, due passaporti. Partire. È come una malattia. Partire è come una scelta. A volte le scelte, nella vita, si presentano misteriose e più uno cerca di svelarle, le scelte, più sembra di essere dentro un labirinto. Partire, sembra la scelta migliore. Scegliere, dicono, scegliere cosa? Partire in cerca dell'America in Europa, nella terra da cui sono partiti i nostri parenti: genitori, zii, nonni, eccetera. L'Argentina è piena di immigrati, emigrati europei arrivati da sempre, emigrati sudamericani arrivati da non si sa bene quando. Il mondo è pieno di immigrati. Migrare. È come una condanna.
Ricordo, compro il mio biglietto aereo andata e ritorno perché non si sa mai, con la compagnia che costa di meno e devo fare: Buenos Aires-Toronto e più tardi, dodici ore più tardi, Toronto-Roma. La proprietaria dell'agenzia di viaggio mi dà delle indicazioni per il viaggio e mi spiega che devo partire dall'Argentina con il passaporto argentino e poi, anche quando faccio lo scalo in Canada, devo usare il passaporto italiano. Dice che è più conveniente, è riconosciuto internazionalmente il passaporto italiano, e non insospettisce, o meglio non insospettisco le autorità aeroportuali. È come se il passaporto argentino avesse meno valore rispetto al passaporto italiano, mi spiega la proprietaria dell'agenzia. I passaporti, come le persone, non sono tutti uguali.
Ricordo, la mia valigia è pronta. È un problema fare la valigia. Non ci sta tutto, lo so. Non porto roba inutile, lascio i libri, come dice mia mamma, i libri in spagnolo non mi servono in Italia, lo so. L'unico libro che metto dentro è «Parliamo italiano 1» di Luciana Berisso e Julio César Scervino, dell'Asociación Dante Alighieri di Buenos Aires. Non ho più spazio nella valigia. Lo spazio interiore o interno, dipende. Porto qualche fotografia della mia famiglia, delle mie amiche, del mio fidanzato e dei suoi fratelli. Lo spazio intorno è diventato lo spazio interno. La valigia è piena, non riesco a chiuderla, mi siedo sopra, esercito una pressione con tutto il mio corpo sul contenuto della valigia, premo. La valigia è piena ed è pronta. Io sono pronta, a metà.
Ricordo, l'aeroporto, luogo delle dichiarazioni e dei controlli. Bisogna dichiararsi e lasciarsi controllare. E sono molto nervosa, ho paura di perdere l'aereo. Perdere l'unica possibilità di un futuro migliore, penso. Chi mi controlla non deve prendere l'aereo. Io, sì. Non ho mai preso un aereo. Ho paura. Ho paura di perdermi. Ma lui o lei deve controllare chi sei, di dove sei, dove vai, perché vai.
Cosa ha da dichiarare? Che cosa posso dichiarare: la mia data di nascita, il mio numero di passaporto, il mio numero di volo, dichiaro i miei numeri, do i numeri, diciamo. L'aeroporto è pieno di numeri. I monitor sono pieni di numeri di orari di partenza e di orari di arrivi. I ritardi sono numeri. Gli aerei hanno numeri. Le porte hanno numeri, le scale hanno numeri, i banchi di registrazione dei passeggeri hanno numeri, le valigie pesano numeri, i posti nell'aereo hanno numeri, non solo, hanno anche lettere. Finestrino o corridoio?
Ricordo, tutto sembra un enorme trasloco. Traslocare in un altro emisfero è una possibilità per chi ha due origini. Lo spazio per gli scatoloni non c'è. Ma emigrare è traslocare, dicono. Mi porto appresso ancora dello spazio intorno: le aule dell'università e due o tre lezioni di storia della sociologia che hanno cambiato la mia vita; mi porto lo sguardo leggero di Marisa, la mia amica maestra; prendo le poche parole dei miei genitori; mi devo portare gli abbracci di mio fratello; forse ci stanno gli alberi della piazza dove giocavo quando uscivo dalle scuole elementari. Mi porto appresso dei ricordi, dicono, delle storie. E dicono, come in tutti i traslochi, qualcosa va perduta per sempre e dicono, qualcosa di imprevisto salta fuori, qualcosa che non so di avere. Emigrare è lasciare. Ma non so bene cosa è emigrare, penso.
Ricordo, il viaggio in aereo è lungo due giorni in tutto. Si fanno tante cose in aereo: si aspetta, l'aereo decolla, noi pure; si mangia, si vedono film in una lingua che non capisco; si ascolta musica, si mangia; si cerca di capire i messaggi dall'altoparlante.
Più che messaggi sono indicazioni sulle cose da fare e sulle cose da non fare in aereo. Si mangia e si ha meno paura. Si mangia e si hanno più illusioni. Si viaggia, l'aereo atterra, anche noi. Si aspetta, noi dobbiamo aspettare, si cambia aereo. Si attraversa l'oceano, noi attraversiamo l'oceano, si vola, si viaggia. Si emigra che è come viaggiare o quasi, sento.
Ricordo, la gente in aereo, persone da tante parti del mondo. Persone che fanno i turisti e parlano molte lingue. Persone che parlano la mia lingua, lo spagnolo. Si dice lo spagnolo per capirsi, ma in realtà si parla l'argentino che è molto simile allo spagnolo, cambiano alcune parole e alcuni modi di dire sono diversi. E sono diversi perché lo spagnolo è stato «contaminato» dalle lingue della grande immigrazione arrivata in Argentina alla fine dell'800. Persone - allora come oggi - che portano tante speranze di una vita nuova. In aereo si fanno progetti con grande entusiasmo; in aereo non si hanno i piedi per terra. Chi si ferma in Canada, chi poi va negli Stati Uniti, chi vuole arrivare in Europa e poi si vedrà. Chi, e siamo in molti, ha un passaporto italiano - perché gli hanno riconosciuto la cittadinanza italiana - e pensa di lavorare nel nord Italia o nel sud della Spagna e poi si saprà. Emigrare è come scegliere nuove radici, credo.
Ricordo, io fingo di ricordare. Ci sono porte, solo porte, ad aspettare. Entrate e uscite. La porta del lavoro sembra la più grande ma è anche la più stretta. Il buio. Ridire chi sei, cosa sei, dove vai. Ricominciare e chiedere permesso, il permesso per non rimpatriare. Ora sono una immigrante e sono «Vu comprà», «Vu tornà», «Vu badà», «Vu sta là», «Vu affogà». La porta delle origini non so bene dove sta. Divento ridicola e devo rimarcare le mie parole, il mio dire che riporta alle mie origini. Mutevoli concezioni lungo le vie identitarie della migrazione. Allora io fingo di ricordare molto meno di quanto in effetti ricordi, ho paura.
Ricordo, sono in Italia dal ventidue dicembre millenovecento ottantanove. Da diciott'anni raggiungo dei titoli per fare delle cose, per risolvere dei problemi, per crearmi una immagine. Una immagine per me e per gli altri: per lo spazio interno, le origini, e per lo spazio intorno, gli orizzonti. Direi una doppia immagine. Per reinterpretarmi, per ricomporre le mie radici, penso. E poi italiani di ritorno o argentini di origine garantita e controllata, meglio Oriundi...sì dai su, come dire, sì facilitati dai documenti. Sradicamento e ricerca affannosa di prove per riabilitare più identità sotto pelle, dicono.
Ricordo, l'essere lontani e abitare l'altrove. Patria di riserva si dice. E non devo imparare a ballare il tango, ora. Scrivere per non essere esclusa o estranea ma per rimanere migrante. Spaesata forse. Doppia cittadinanza o risorsa identitaria, chiedo. Scrivere, ancora, tra lo spazio intorno e lo spazio interno per esplorare le mie traiettorie. Abitare la memoria per mantenere i miei e i tuoi ritorni.
Ci sono volte, anche ora, in cui fatico a ricordare. Tutte le volte ho molti rimpatri.
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