Nelle ultime settimane, leggendo i quotidiani nazionali, ho scoperto con grande sorpresa che il governo sta riflettendo su una modifica delle legge sulla concessione della cittadinanza. Conosco ormai la tempo la Rete G2, associazione che si occupa di difendere il diritto alla cittadinanza dei figli degli immigrati, le cosiddette seconde generazioni, cosí come è ormai da tempo che, per questioni personali, mi interesso a questo argomento. Di conseguenza ho deciso di scrivere questa lettera. Prima di iniziare ad esporre le mie idee a riguardo, vorrei sottolineare che il tutto è frutto di ricerche e studi in questo ambito e che quindi mi avvalgo degli insegnamenti della storia per supportare la mia tesi, giusta o sbagliata che sia (tanto per mettere le mani avanti). Per quanto mi riguarda, mi sembra paradossale che persone nate e/o cresciute in Italia non abbiano il diritto di esserne considerate dei cittadini. Analizzando la reazione di molti italiani a riguardo, mi sono resa conto che probabilmente il problema nasca dalla nostra definizione, alquanto inesatta, di "italianità“. Molti pensano infatti che dare la cittadinanza equivalga a dover concedere ad estranei un qualcosa di "nostro", come dare via un oggetto di famiglia a qualcuno che a mala pena conosciamo e che non se lo merita. E questo qualcosa è non solo nostro, ma soprattutto soltanto nostro, e ci è sempre appartenuto da generazioni di generazioni, fino a risalire agli albori dell´umanità (a quanto pare infatti, era già un tema molto discusso durante la preistoria, nonostante l´uomo non avesse ancora sviluppato interamente l'uso della parola). L´italianità viene considerata quindi una specie di arcaico fenomeno immanente, che aleggia nell´area dei confini nazionali da sempre: un qualcosa di ineffabile che stabilisce chi siano coloro che possano godere dei diritti civili all´interno dell´Italia. Introducendo il termine "diritto" mi sembra opportuno fare un passo in avanti e ammettere che l´italianità, cosí come qualsiasi nazionalità, piú che una questione di sangue o di territorio, riguarda il diritto di essere considerato cittadino legittimo di un determinato stato costituito. Noi invece commettiamo l´errore, parlando di italianità, di collegare questo termine al concetto di nazione e nazionalità. Il concetto di nazione, almeno facendo riferimento a quello che mi è stato insegnato a scuola, viene interpretato ancora oggi in maniera romantica (non parlo di cioccolatini e lume di candela bensi di Herder): la nazione è l´anima di un paese, la sua cultura e la sua lingua, tutti elementi considerati praticamente i presupposti alla base di uno stato. A questo punto peró sarebbe il caso di ripassare velocemente un pochino di storia. Non vorrei risultare pedante e prolissa, ma purtoppo mi è necessario, per rendere il mio filo logico più comprensibile, fare un breve accenno ad alcuni passaggi storici nonchè alla testimonianza di personalità influenti vissute prima di noi moderni.
Partendo dal presupposto, in realtà non proprio esatto, che il concetto di nazione sia da collegarsi all´idea di popolo, lingua e cultura, trovo interessante il pensiero di Schieder, uno degli storiografi più autorevoli della Germania del dopo guerra, conosciuto soprattutto per la sua ricerca sulla nascita dello stato moderno. Schieder nel libro "Der Nationalstaat in Europa als Historisches Phänomen" (1964) spiega come spesso si commetta l´errore di credere che lo stato nasca necessariamente da una nazione, concetto che in qualche modo eleverebbe la nazione ad un ruolo superiore, nonchè indiscutibilente necessario, di madre fondatrice dello stato. In molti casi però, lo stato si é formato prima della nazione, elemento quest'utimo creato soltanto in seguito e quasi artificialmente. Mi rendo conto che l'ultima frase possa sembrare un tantinello ingarbugliata e ho deciso così di venirvi in contro con un esempio: la Grecia moderna. Infatti, successivamente ai moti rivoluzionari dell´ottocento e all´ottenimento della propria indipendenza dall´impero ottomano, l´Europa decise di riconoscere, di legittimare e quindi di "creare" lo stato della Grecia, ponendone a capo "lo straniero" Otto Wittelsbach, alllora principe della Baviera. Nonostante per noi oggi la Grecia sia una Nazione con la "N" maiuscola, storicamente parlando, soprattutto in seguito alla dominazione straniera, i greci non erano più "greci" nel senso nazionale del termine. Erano guidati da un sovrano straniero e non avevano nemmeno una lingua nazionale! Ebbene si, uno dei presupposti fondamentali del concetto di nazione oggi tanto sbandierato, la lingua, fu creata in seguito alla nascito dello stato greco dallo scrittore Adamantios Korais. A questo punto mi sembra utile fare un parallelo con un'altra nazione (uso questo termine di proposito) che fino a 150 anni fà non esisteva: L´Italia. Non metto assolutamente in dubbio che in qualche modo fossimo legati da una intellighenzia "nazionale" che cercava di mantenere una certa unità lunguistica e culturale, tuttavia mi sembra abbastanza giusto affermare che 150 anni fà, e probabilmente anche oggi, un siciliano ed un piemontese non sarebbero del parere di appartenere ad una matrice culturale identica. A proposito, l´ora mi sembra propizia per commentare l´attegiamento dei nostri amici leghisti (che indubbiamente hanno un origine preistorica), che già ai tempi della pangea non potevano sopportare il fatto di essere stati sfortunatamente piazzati vicino al meridione... e questo nonostante il meridione ancora non esistesse!
Continuo questo piccolo excursus storico citando un discorso tenuto da Ernst Renan alla Sorbona l’ 11 marzo del 1882 ed intitolato "Cos'è una nazione?": «La terra, come la razza, non fa una nazione. La terra fornisce il sostrato, il campo della lotta e del lavoro; l'uomo fornisce l'anima. L'uomo è tutto nella formazione di quella cosa sacra che si chiama popolo. Tutto ciò che è materiale è insufficiente. Una nazione è un principio spirituale, prodotto dalle profonde complicazioni della storia, una famiglia spirituale, non un gruppo determinato dalla configurazione del suolo.
[...] La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L'esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni».
Razza, concetto che ormai molti (ma non ancora abbastanza) ritengono ampiamente superato, e geografia non hanno quindi nessun ruolo quando si tratta di determinare cosa sia una nazione. Ció che veramente importa è il contributo del singolo individuo e la sua scelta individuale di appartenere ad una nazione, intesa come società finalizzata al benessere comune: come direbbe appunto Renan, un plebiscito. Oltretutto nel discorso di Renan viene accennato il fatto che anche le nazioni moderne per eccellenza, come ad esempio la Francia, sono nate da un sincretismo di varie culture e popoli (Franchi, Normanni, Sassoni ecc.) che è stato poi, dopo qualche generazione, un paio di guere e soprattutto tanti matrimoni misti, "fortunatamente dimenticato", facendo sì che individui "geneticamente" e culturalmente parlando assai diversi, si siano fusi al punto tale, che le differenze iniziali siano svanite, lasciando quindi soltanto un gruppo relativamente compatto ed unito: unito in uno stato. Dulcis in fundo mi sembra opportuno citare Thomas Hobbes, che nella sua opera "Leviatano" (1651), descrive i processi fondamentali alla base della formazione di uno stato. In breve: l´uomo è fondamentalmente malvagio, anzi, più che malvagio non è capace di vivere in pace, e per questo si ritrova in uno stato di "bellum omnia contra omnes". A questo punto un certo gruppo di individui decide, tramite un Pactum Unionis (composto da un Pactum Societatis e un Pactum Subiectionis), di rinunciare ad una parte della propria libertà e di delegare il potere ad un singolo individuo o ente (ad esempio uno stato), incaricato di portare ordine, sicurezza e quindi giustizia.
Piccola precisazione sulle fonti: Schieder all´inizio della sua carriera apparteneva al NSDAP (tanto per ribadire i soliti luoghi comuni sui tedeschi) mentre Renan è stato incolpato più volte di essere razzista: chissà, magari aveva stretto amicizia con Gobineau (se fosse vero, penso che Arthur abbia preso abbastanza male il cambiamento di rotta di Renan alla Sorbona...). Insomma tra gli autori citati, soltanto Hobbes gode una fama "inattacabile" (almeno credo) per quanto riguarda i diritti umani. Tuttavia penso che questi tre autori abbiano elaborato nell´evoluzione del loro pensiero, ed in seguito a notevoli elucubrazioni mentali, un concetto che, a mio avviso, è un qualcosa di estremamente prezioso per l´uomo moderno: la consapevolezza che la nascita e la ricchezza di uno stato derivino da una scelta consapevole dei suoi cittadini. Questi cittadini non sono un gruppo etnico preciso, bensí qualsiasi persona pronta ad inserirsi con rispetto e consapevolezza nella vita sociale di uno stato facendone quindi parte come colonna portante. Cosa sarebbe infatti uno stato sensa i suoi cittadini? Mi sembra quindi assurdo nel 2011 dover litigare sul pricipio di "italianità", ponendolo tra l´altro su un gradino superiore al concetto di cittadinanza. Con questa lettera non intendo dire che bisogna dare la cittadinanza alle seconde generazioni "nonostante non siano italiani", bensi ribadire che, nel momento in cui qualcuno nasce e/o cresce in un paese, è inevitabile che ne assorba l´essenza dei processi sociali, diventandone quindi cittadino a tutti gli effetti. È questo infatti il criterio fondamentale che dovrebbe essere adottato nel rilasciare la cittadinanza, e che in fondo viene ribadito dalla parola stessa. Forse sto esagerando il concetto, ma tutto il resto non conta: la politica dovrebbe servire a creare uno stato di diritto per le persone che vivono all´interno della sua giurisdizione. È vergognoso e ingiusto che i nostri politici si ergano a difensori di un´italianità intesa in modo sbagliato, ritenendo che l´escludere persone cresciute nell´ambito del proprio sistema sociale debbano essere considerate, piú che straniere (e sarebbe il caso di dirlo chiaramente), estranee alle nostre leggi e ai principi del nostro stato. Queste sono soltanto le conclusioni di una studentessa. Puó anche darsi che siano sbagliate: tuttavia per elaborarle ho fatto lo sforzo di ricercare informazioni sul tema in modo tale da crearmi, nel bene e nel male, solide basi sulle quali fondare le mie convinzioni. Mi domando se i politici del PDL e della Lega Nord, che si oppongono tenacemente ad una modifica sulla legge sulla cittadinanza, abbiano fatto la stessa cosa. Sanno cos'è stata l'immigrazione italiana? Hanno studiato la nascita della nazione moderna? E soprattutto: se non l'hanno fatto, con quale coraggio si permettono di pregiudicare così gravemente i diritti e quindi la vita di altre persone che dovrebbero invece difendere? E qui finisce (finalmente) la mia arringa. Un caloroso applauso a coloro che hanno avuto la pazienza di leggerla fino alla fine. Come ricompensa vi lascio un ultimo pensiero: le seconde generazioni sono qualcosa di speciale, sono un ponte, un passo avanti nella mentalità e nel pensiero dell´essere umano libero da confini nazionali e capace, tramite il rispetto del prossimo, di creare veramente un mondo migliore.
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