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Anita Jain: tra Monsoon Wedding e Sex & the City
di Anna Momigliano

Del suo romanzo il New York Times ha detto: «E’ intelligente, incisivo, una provocante esplorazione nella natura dei rapporti umani». Ma Anita Jain, trentacinquenne indiana americana (nel senso che i suoi genitori sono immigrati dall’India), è molto di più di una giovane autrice di romanzi di successo. Anita Jain è un romanzo.

Anita è la quintessenza della giovane yuppy newyorchese, anche se in realtà è californiana. E fossero tutte qui le contraddizioni.

Poco più che ventenne, ha ottenuto un lavoro prestigioso al Financial Times. Ha girato il mondo: Londra, città del Messico, Singapore, Roma. E poi New York. Lì per anni ha fatto quello che fa ogni brillante donna single. Girare ogni sera con le amiche per bar dalle tariffe proibitive, sorseggiando Manhattan e altri cocktail iperalcolici che sembrano presi da una serie dell’Hbo.

Tenta di rimorchiare (con fortune alterne, a dire il vero) bellimbusti in carriera oppure artisti strafatti, meglio se con uno snob accento straniero. Di quelli che, ammesso e non concesso che una riesca a portarli a letto, il giorno dopo non richiamano mai. Di tanto in tanto scrive qualche storia autobiografica per il New York Magazine (che fa tanto chic), con riflessioni su gli uomini, il sesso, l’amore e altre sciocchezze. Potrebbero quasi portare la firma di Carrie Bradshaw, se non fosse per gli aneddoti che, più di una sitcom newyorchese, ricordano East is East.

Un giorno riceve, per copia conoscenza, un’email indirizzata a suo padre: «Ci è piaciuto il profilo. Il ragazzo ha un buon impiego pubblico nel Mississipi. La ragazza deve trasferirsi». Firmato: « Mr. Ramesh Gupta, il padre del ragazzo». E’ l’ennesimo tentativo da parte del signor Jain, «il padre della ragazza», di organizzarle un matrimonio combinato alla vecchia maniera. Con un perfetto sconosciuto.
Fin qui sembra un copione già visto: figlia libera e cresciuta in Occidente si ribella ai genitori immigrati che tentano di imporle le tradizioni. Sarebbe una storia tipicamente fine Novanta, primi anni Duemila (avete presente Sognando Beckham?): un po’ di scontro di civiltà, un po’ di multiculturalismo, magari una spruzzatina di politically correct.
E invece no. Perché a un certo punto Anita accetta. A 33 anni suonati, si dice che un matrimonio combinato non è poi peggio dei bar newyorchesi, o di quei siti internet per single. E’ il 2005. Lei lascia il suo lavoro, fa le valige e si trasferisce in India. Obiettivo: trovare un marito, nella terra dove combinare matrimoni è lo sport nazionale.
Può permetterselo questo passo indietro, perché a differenza di molti altri figli di immigrati, non appartiene a una famiglia modesta, né particolarmente conservatrice. I genitori sono ingegneri.

La fanciulla ha una laurea ad Harvard. Appartiene alla categoria di americani colti che sentono la necessità di impressionare gli interlocutori europei infarcendo le proprie frasi con espressioni straniere, come «en lieu» o «Verboten», che avrebbero benissimo un corrispettivo in inglese. O peggio ancora, con qualche commento pungente sulla politica estera israeliana. Per farla breve, è più ossessionata dalla preoccupazione di apparire come una stupida yankee che dal tentativo di assimilarsi alla (stupida?) cultura yankee.
Poi, messa alle strette dalle prospettive di zitellaggio vitanaturaldurante, alla stessa età in cui Briget Jones cominciava a immaginare di morire da sola sbranata dai propri alani, Jain sceglie la tradizione. Anche se nella sua versione moderna.
Infatti, arrivata a Nuova Delhi, Anita fa tutto fuorché darsi una regolata: esce, fuma, beve, frequenta artisti e bohémien, si porta a letto uomini sposati e affascinanti rockstar di dieci anni più giovani di lei. Tutto questo, senza mai interrompere la ricerca di un buon matrimonio combinato, attraverso inserzioni sui giornali e siti internet specializzati in matrimoni indù, che si concludono in improbabili appuntamenti d’altri tempi, con tanto di chaperon.
Non vi raccontiamo se poi un marito Anita poi l’ha trovato, alla vecchia o alla moderna maniera. Sappiate però che da questa sua esperienza è nato un romanzo autobiografico, pubblicato ahinoi solo in India e negli Stati Uniti, e che ha ricevuto ottime recensioni. A metà strada tra Sex and the City e Monsoon wedding, “Marrying Anita” è una finestra sulle notti brave della gioventù bruciata di Nuova Delhi tanto quanto sulle plurimillenarie tradizioni indiane.

L’autrice non si prende troppo sul serio. Racconta della sua solitudine, delle sue aspirazioni di futura moglie . Ma senza false pruderie, ironizza sulla sua vita sessuale: «Non riscuoto molto successo perché sono un’amante statica», ammette.
Anita Jain tutta questa contraddizione non la vede. E se le vade, non le dà fastidio. Lei ci è cresciuta sospesa tra due mondi: è una ABCD, una «American Born Confused Desi», una figla di immigrati indo-pakistani (desi, in slang), nata in America e per definizione confusa. E’ una brava scrittrice, di cui probabilmente sentiremo parlare anche in Italia.

Ma soprattutto è una figura dei nostri tempi. Post-femminista, post-multietnica. Un simbolo, tutto fuorché perfetto, della globalizzazione, versione 2.0.


Fonte: http://rivistastudio.wordpress.com/2011 ... -the-city/


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MessaggioInviato: 22 gen 2011, 03:59 
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sai che mi ha attirato un casino sta recensione, penso me lo compro, ahah.

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MessaggioInviato: 22 gen 2011, 14:10 
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L'articolo mi è stato suggerito dalla sua stessa autrice, Anna Momigliano, che ha mandato una mail alla segreteria segnalandolo.


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