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Integrazioni?

Ragazzi/e ho una brutta notizia/scoperta per voi -ma probabilmente lo sapete già meglio di me-, ovunque andiate, in qualunque parte del mondo, sarete sempre e comunque stranieri… Immaginate: tornate nel Paese dove sono nati i vostri genitori a lavorare -e vivere-, vi ambientate, per carità, in poco tempo, mangiate cibo del luogo con disinvoltura, vivete la vita del luogo con disinvoltura e a vostro agio fate quello che fanno gli altri. Tanto il vostro aspetto non vi tradisce, i vostri tratti somatici sono tal quali a quello degli indigeni. Ma…

…ragionate da italiani, anche se parlate la lingua la vostra lingua è rimasta fossilizzata. Riuscite ad afferrare quello che dicono gli altri, ma non comprendete mai il 100%. Non conoscete a fondo l’ambiente e le abitudini.

Mi spiace per voi, ma vi sentirete comunque stranieri.

Ora sostituite la seconda persona plurale con un “tu”.

Otterrete un monologo di uno straniero-ovunque.

Chiedimi se sono felice

1sorriso.jpgMa perché una delle prime domande fatte dai Media alle seconde generazioni deve essere sempre: ma tu sei integrato? Ti senti integrato?
E i giornalisti scrivono di noi, della Rete G2, che siamo delle seconde generazioni perfettamente integrate. Ma cosa cavolo vuol dire?
Ultimamente, quando mi viene rivolta la domandina preconfezionata, la tentazione spontanea è di rispondere chiedendo a mia volta all’intervistatore: e tu? Sei riuscito a integrarti?
Come se noi seconde generazioni fossimo dei corpi estranei alla società italiana. Noi siamo già società italiana.

Quando sei un immigrato o un figlio di immigrati, come nel nostro caso, la domanda sembra nasconderne un’altra ben più diretta: sei innocente o colpevole?
Sei una minaccia e un rischio oppure sei carino e non mi romperai le scatole? Sei incapace e non ti sei impegnato sul serio oppure sei adatto per quello che noi vogliamo da te?

Ma cosa vogliono da te? E perché non lo richiedono a tutti i figli di Roma, di Milano, di Genova, di Napoli? Che abbiano origini italiane o straniere?

In realtà la domanda che viene spontanea a me quando parlo con altri, giovani e meno giovani, figli di italiani o figli di immigrati è invece: sei felice?

Perché sta tutto là l’interesse per chi ti circonda, per chi fa parte di questa società, di amici o parenti, di conoscenti, di altri cittadini, di sconosciuti che incroci sull’autobus o mentre fai la fila alla posta. Vivi bene? Sorridi oppure hai gli incubi tutte le notti?

Insomma…

Chiedimi se sono felice.