Lo dice Gianfranco Fini ai giovani extracomunitari di Torpignattara
Stronzo chi pensa che questo ragazzo è diverso“Stronzo”. L’ha detto il presidente della Camera. Sentito bene, proprio quella parola lì. È una parolaccia per il vocabolario della lingua italiana, significa, in modo volgare, escremento umano, ma ormai, per tutti, è l’appellativo che si dà a chi assume atteggiamenti o comportamenti lesivi della dignità e della persona altrui. Per il presidente della Camera, Gianfranco Fini “stronzo” è colui che discrimina un altro per il colore della pelle o per il paese da cui proviene. È “stronzo” chi guardando un ragazzo di un altro colore lo considera diverso e meno di sé. Chiunque lo faccia, è “stronzo”. Senza appello e senza edulcoranti linguistici o perifrasi verbali che in questo caso sanno solo di ipocrisia.
«Vi pesa essere qui? C’è qualche stronzo che usa qualche parola di troppo?», chiede Fini ai giovani extracomunitari del centro interculturale Semina Semina, di Torpignattara, periferia est di Roma. E gli “ospiti”, in massima parte adolescenti e bambini cingalesi, cinesi, filippini, eritrei, restano basiti. È un adulto, e un adulto importante che parla. Sbiancano persino i giornalisti e il portavoce di Fini. Eppure, il fu leader di An insiste, rincara: «Perché se qualcuno lo fa, la parolaccia la merita: voi la pensate, io la dico». E allora il pensiero ti corre subito al Fini che siede sullo scranno più alto di Montecitorio, alla politica ingessata delle parole difficili, alle polemiche sul “white Christmas”, alle dichiarazioni di tutti i giorni. Possibile che il politically correct oggi sia rimasto a casa, insieme ai pantaloni dell’abito di Fini, che arriva a Torpignattara in jeans e giacca blu, con la cravatta ma con la camicia a righe? Evidentemente sì, perché nella ex scuola media di periferia, la politica non è entrata affatto.
Nessun discorso da presidente, zero spazio per il cerimoniale: Fini si è buttato a corpo morto tra i ragazzi e ha fatto parlare loro e a uno ha detto persino che è “un bel paraculo”, perché chi sfugge alle domande e ne pone in replica, come ha fatto il ragazzino eritreo, è proprio un “paraculo”, in qualsivoglia tipo di aula. S’è buttato Fini, «perché se non li ascolti, se non vieni qui, non capisci». E allora, quando gli hanno chiesto se «riuscirà a convincere quelli di destra» sulla bontà delle sue aperture sull’immigrazione, Fini ha sorriso e ha detto che «quelli di destra, ma anche qualche amico di sinistra» si convinceranno, «perchè di queste cose non puoi parlare dal bel salotto», dove la parola “stronzo” non la senti mai, nemmeno detta con la erre moscia o con il tono della voce un’ottava più basso del solito.
«Questi ragazzi - ha aggiunto ancora Fini, parlando con i cronisti al termine della visita - non hanno nulla di diverso dai loro coetanei: hanno gli stessi sogni e gli stessi problemi» e “quelli di destra” «si convinceranno, anche perché fra un po’ questi ragazzi saranno molti di più». È la generazione degli Andrea con gli occhi a mandorla, di chi si chiama con il nome di una divinità indù troppo difficile da pronunciare e che diventa allora semplicemente Lak, di chi va al liceo con il costume tradizionale del Bangladesh, figli d’immigrati in Italia arrivati neonati o quasi, gente che parla romanesco o milanese più che la lingua dei padri, ragazzi che Fini ha incontrato e dai quali s’è fatto dire che «il crocifisso in classe non dà nessun fastidio, a patto che nessuno voglia imporre la religione d’un altro». «Che replicare - è stato il solo commento di Fini - sono d’accordo, mi sarei preoccupato se avessero detto il contrario».
E allora basta con l’equazione “straniero uguale criminale”, e sbattere nel titolo d’un giornale «il riferimento etnico accanto al brutto fatto di cronaca è un modo di fare informazione scorretto e superficiale», meglio che i media si astengano.
Resta però lo “scoglio normativo”, parola che Fini non usa ma che ben definisce le barriere poste dalla Bossi-Fini. «Ne condivido ancora la filosofia di fondo, che è quella che dice che stai in Italia solo se hai un lavoro. Però oggi farei un paio di modifiche». Una riguarda «i sei mesi dopo i quali, se perdi il lavoro, ti scade il permesso di soggiorno. Con questa crisi sarebbe meglio fare un anno». La seconda è uno snellimento burocratico: per Fini è da cambiare la norma che impone allo straniero il ritorno in patria per il rinnovo della domanda di soggiorno. «Meglio sarebbe incaricarne ambasciate e consolati». Applausi, autografi, saluti e «ci vediamo alla Camera, venitemi a trovare».21 novembre 2009