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 Oggetto del messaggio: Il Foglio: L'Italia a chi la ama
MessaggioInviato: 27 ott 2009, 22:01 
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24 ottobre 2009
L'Italia a chi la ama/1

Ecco perché diventare cittadini italiani, per chi ha pazienza, non è difficile

Ah se l’Umberto sapesse quali sono le domande che vengono fatte agli immigrati che aspirano a diventare italiani nella questura di Milano. Chissà che faccia farebbe il leader maximo del Carroccio che non pare disposto ad alcun compromesso sulla legge bipartisan Sarubbi-Granata all’esame dalla commissione Affari costituzionali della Camera per modificare e agevolare la concessione della cittadinanza italiana. Sì, perché anche se la legge istituita nel ’92 non lo prevede, nelle questure ormai la prassi è questa: si fa un breve quiz, improvvisato, deciso dal funzionario di turno, per capire il grado di integrazione dei futuri cittadini italiani e fra i quesiti a Milano c’è n’è anche uno sul sacro Po. Infatti se sono giovani, apparentemente preparati e magari con una laurea, viene chiesto loro qual è il fiume più lungo d’Italia. Così ci hanno raccontato i funzionari della questura milanese. E pare che tutti rispondano correttamente.

Certo, non si spingono a chiedere un’aria del Nabucco né a fare un esame di dialetto lombardo, ma chiedono quanti sono gli articoli della Costituzione e, quando sono in vena di umorismo, si divertono a interrogarli sul sommo poeta e chiedono se sanno chi ha scritto la Divina Commedia. Altrimenti si limitano a chiedere le motivazioni che hanno spinto giovani nati in Italia che hanno raggiunto la maggiore età o immigrati con una residenza continuativa di dieci anni (che hanno i documenti in regola, non hanno compiuto nessun reato e possono dimostrare di avere un reddito annuale che sia circa di ottomila euro, dodicimila con coniuge a carico più 1500 per ogni figlio) a voler diventare italiani. E le risposte sono sempre più o meno lo stesse. “Mi sento italiano”. “Amo l’Italia”. “Quando torno nel paese dei miei genitori mi sento straniero”. “Questa è la mia casa”. “Voglio avere il passaporto italiano ed essere finalmente libero di viaggiare”. A quelli che invece parlano un italiano stentato, e hanno una cultura generale più scarsa viene chiesto solo chi è il presidente del Consiglio. Va da sé che quando c’era Romano Prodi tutti tacevano, perché non lo sapevano, mentre da quando c’è il Cav., chissà perché, tutti hanno la risposta pronta. “Berlusconi”, esclamano, ci ha detto una funzionaria della questura molto spiritosa. “Una volta ho addirittura fatto una domanda di storia sul fascismo, ma insomma lui era un manager senegalese di un noto marchio della moda italiana, e sapevo di poter alzare il livello del colloquio”.

Ovviamente i quiz sono soprattutto rivolti agli stranieri immigrati che chiedono la naturalizzazione, perché per quelli che hanno sposato un cittadino/a italiano, sia per amore sia per convenienza, la strada è più semplice. Vale anche con il pacchetto sicurezza voluto dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, che vorrebbe limitare il business molto diffuso dei “falsi” matrimoni misti. Se prima infatti bastavano sei mesi di convivenza accertati in seguito alla celebrazione del matrimonio per richiedere la cittadinanza italiana, ora ci vogliono due anni di residenza legale e convivenza certa, ma in questo caso la concessione della cittadinanza da parte dello stato italiano è obbligatoria. E deve rispettare i tempi previsti dalla legge. Per tutti gli altri, invece la cittadinanza non è automatica, ma discrezionale, e quindi l’iter è lungo e macchinoso. E per questo motivo è oggetto di dibattito fra chi pensa che il criterio dello ius sanguinis sia ormai obsoleto, quasi vessatorio nei confronti degli immigrati di seconda generazione, e chi invece ritiene che l’integrazione debba procedere molto lentamente e con criteri molto severi.

La pratica per diventare italiani parte dalla prefettura, dove si raccolgono i documenti, e arriva in questura dove si fa un colloquio preliminare e poi si manda tutto a Roma al Viminale per gli accertamenti sulla fedina penale e le “note riservate” del Sismi, soprattutto quando si tratta di immigrati arabi legati a qualche moschea più radicale. Poi si chiedono informazioni ai paesi di origine e, se tutto è regolare, arriva il decreto di cittadinanza dalla presidenza della Repubblica. E tutto finisce nel comune di residenza con giuramento di fedeltà alla Repubblica, qualche pasticcino e due doni: il testo della Costituzione italiana e una bandiera tricolore che, qualche volta, finisce nel salotto di casa perché rappresenta un traguardo per niente scontato. Anche se può accadere qualche episodio che fa sorridere (e riflettere). Come è successo a Fatima, palestinese nata in Italia, laureata in Giurisprudenza. Al suo comune di residenza, quando ha ottenuto la cittadinanza le hanno regalato sì il testo della Costituzione, ma tradotto in arabo. E lei si è chiesta come mai, se era diventata cittadina italiana, dovesse leggere gli articoli della nostra Costituzione in arabo, manco fosse il Corano. E lei, che è musulmana praticante ha trovato buffo, financo stonato, questo gesto troppo politicamente corretto.

Coloro che si presentano in questura, questo è quanto ci hanno detto i funzionari della questura milanese, sono o appaiono davvero motivati. E se non ci sono elementi ostativi, dovuti a reati penali o a sospetti di pericolosità sociale, quasi sempre il ministero dell’Interno convalida il parere positivo delle questure. Secondo la piccola squadra della questura milanese, tre funzionari civili della polizia, tutte donne, è facile capire chi è integrato e chi non lo è. A loro, pare, basta poco. Certo, se qualcuno dice che vuole la cittadinanza italiana per evitare le eterne trafile all’ufficio immigrazione per il rinnovo del permesso di soggiorno, viene respinto perché la motivazione è debole, ma se chi arriva dimostra di avere, oltre che i documenti in regola, un minimo di attaccamento al paese in cui vive o in cui è cresciuto, deve solo avere molta pazienza perché l’attesa è lunga: dai due ai quattro-cinque anni. La prospettiva sulla legge della cittadinanza italiana istituita nel 1992, vista dalle istituzioni italiane, da chi esamina le pratiche e prende decisioni, è abbastanza indulgente. Infatti se qualcuno che parla un italiano stentato rimane nel limbo dell’incertezza, può essere richiamato dopo un paio d’anni per vedere se la conoscenza della lingua è migliorata e si riapre la pratica. Se invece la prospettiva è vista da esperti del diritto, che si battono a favore degli immigrati, allora il diritto alla cittadinanza in vigore pare obsoleto.

Sergio Briguglio, fisico, esperto di politiche dell’immigrazione, ritiene per esempio che la legge debba essere assolutamente modificata per tre ordini di ragioni. “Innanzitutto per i tempi di attesa: sono lunghissimi e vanno accorciati, e infatti la proposta di legge di Sarubbi-Granata mi sembra un ottimo compromesso”, spiega al Foglio. “Il più grande intoppo per ottenere la cittadinanza è la richiesta di continuità della residenza, un criterio che spesso si scontra con la precarietà di molti immigrati che cambiano indirizzo e si dimenticano di informare il comune o con il fatto che la pratica viene sospesa durate l’attesa del rinnovo del permesso di soggiorno. Ecco perché nella nuova proposta di legge la residenza continuativa è stata sostituita con il permesso di soggiorno continuativo. Chi nasce in Italia dovrebbe avere diritto a diventare italiano con maggior automatismo anche se con dei vincoli, come per esempio un arco di tempo di residenza legale dei genitori”, aggiunge Briguglio. “Mi fanno un po’ sorridere questi quiz improvvisati di italianità che si fanno nelle questure: se si vuole essere rigorosi, e verificare lo stato di integrazione dei richiedenti, allora i criteri devono essere seri. Ecco perché la nuova legge propone la concessione della cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia dopo un ciclo di studi. Lo ius sanguinis aveva un senso quando si voleva proteggere gli italiani che emigravano all’estero, ma la società è cambiata ed è arrivata l’ora di adeguarci”. Certo non è sempre così facile ottenere la cittadinanza. Se, come è capitato spesso, alcuni immigrati di origine egiziana chiedono la cittadinanza ma poi lasciano figli e moglie nel paese di origine perché è lì che vogliono tornare, allora la riposta è negativa. O se, come è successo, cittadini marocchini ammettono di preferire che i figli studino in scuole arabe o rimandano le loro figlie in Marocco perché abbiano un’educazione islamica, allora il parere non è favorevole.

O ancora: se, come è successo recentemente, una famiglia iraniana si presenta con l’interprete perché dopo molti anni di residenza i componenti non sanno ancora parlare l’italiano, la loro richiesta non viene neanche presa in considerazione. “Quanto agli attivisti islamici, dare un parere sulla loro integrazione è più difficile”, dice ancora un funzionario di un’altra questura interpellato dal Foglio. “Sono preparatissimi e spesso conoscono tutti gli articoli della Costituzione italiana”. Ma i dati parlano chiaro: sono pochissimi gli immigrati legali a cui viene respinta la richiesta di cittadinanza. Secondo i dati del Viminale, dal 1980 al 2007, i cittadini stranieri diventati italiani sono 246mila. E nonostante i tempi lunghi della burocrazia, sono pochissime le pratiche che vengono respinte: nel 2007 su 38.466 accettate, solo 564 sono state considerate inammissibili, mentre quelle respinte rappresentano una cifra irrilevante: 147. Nel 2008 invece i nuovi italiani sono stati ancora di più: 39.484. (Domani la seconda puntata)

© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO

di Cristina Giudici


Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/3665

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 Oggetto del messaggio: Re: Il Foglio: L'Italia a chi la ama
MessaggioInviato: 27 ott 2009, 22:04 
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25 ottobre 2009
L'Italia a chi la ama/2

Racconti dal sottosuolo di chi attende la cittadinanza e di chi ce l’ha fatta


Immagine

Le palpitazioni durante le file in questura.
La paura di non farcela a superare il colloquio per il rinnovo del permesso di soggiorno. Con quella sensazione amara per un’esistenza precaria, priva di un’identità certa. Con quel conflitto interiore che non si riesce mai a placare. E la sensazione di estraniamento che non si attenua mai. A leggere le testimonianze sul blog degli immigrati di seconda generazione, l’attesa, la speranza di ottenere la cittadinanza italiana non è soltanto una rivendicazione sociale e politica, ma un pensiero ridondante, quasi ossessivo. Un diritto per loro che sono nati o cresciuti in Italia, che dovrebbe essere automatico, che nessuno dovrebbe più confutare.

Sul sito www.secondegenerazioni.it (da cui è prese la foto) si leggono i loro racconti, una specie di flusso di coscienza, un rituale sfogo corale nei confronti di un paese, l’Italia, dove non si sentono mai del tutto a casa e verso il quale provano spesso anche molta acredine, che li relega in un microcosmo serrato. E infatti loro, indipendentemente dal paese di origine dei genitori o della loro fede, i ragazzi cresciuti o nati qui si considerano solo seconda generazione, G2. Un logo che serve a differenziarsi, a non dimenticarsi mai che non sono del tutto italiani, e che forse fa presagire un conflitto culturale che poco c’entra con la religione, ma riguarda soprattutto, con l’appartenenza, l’integrazione parziale.

Scrive infatti Zhanxing Xu il 21 Settembre 2009: “Sveglia alle 6 e 45, una veloce sciacquata e poi subito alla stazione a prendere il treno delle 7 e 24. L’attesa dell’autobus e poi alla questura di Grosseto. Intanto mille domande scorrono veloci nella mia testa: come sarebbe andata questa volta? Cosa sarebbe successo? Mi sarebbero uscite le lacrime come l’ultima volta? Tante, troppe le preoccupazioni. Arrivo in questura alle 8 e 35, fila d’una decina di persone, due poliziotte allo sportello con la macchinetta per rilevamento impronte. Mi siedo e aspetto. Le gambe cominciano improvvisamente a tremare, le mani si chiudono in pugni stretti che cercano di scaricare la tensione, intanto tutta l’energia si accumula all’altezza dello stomaco, un ammasso gigantesco simile a un ordigno pronto a scoppiare. Brividi, continue scosse in tutto il corpo, i denti digrignano, sguardo nel vuoto, Mi sento VULNERABILE, INDIFESA, SOLA. E’ una lotta continua, prima di tutto con me stessa, con le istituzioni e con i pregiudizi e vincerò io presto, ne sono certa” .

Certo, nella scelta dei toni, dal timbro dei loro sfoghi, emerge un po’ di vittimismo.
Ma poi, quando si parla con loro, che quando tornano nei paesi di origine dei loro genitori si sentono estranei a meno che siano guidati dai dogmi della fede, emerge quasi un patriottismo, almeno sul piano verbale, che stupisce. Saba per esempio vive a Milano ed è un’eritrea italiana. Sindacalista, ha ottenuto la cittadinanza qualche anno fa e ora assiste, affianca, chi cerca di diventare italiano, ad ogni costo. Ai suoi “clienti” lei non dice mai di essere una dei nuovi cittadini italiani, quasi si vergognasse un po’ di essere stata più fortunata degli altri. Allo stesso tempo però è lei stessa, che quando ha giurato sulla Costituzione italiana ha pianto, ad ammettere che molti stranieri, soprattutto se sono adulti e di recente immigrazione, non chiedono la cittadinanza per attaccamento al nostro paese, ma perché ritengono che sia solo un’opportunità. Oppure, qualche volta addirittura una resa, una sconfitta, perché sognavano di tornare a casa, e invece sono rimasti qui. L’idea che Saba ha dell’Italia è un po’ da cartolina: le gondole di Venezia, i tesori artistici di Venezia, la cialtrona simpatia degli italiani che lei, sindacalista della Cgil, non considera affatto razzisti, semmai un po’ superficiali. “Quando viaggio mi manca il traffico, lo smog, l’inquinamento di Milano. Io adoro l’Italia”, dice al Foglio.

Sumaya Abdel Qader, giordano-palestinese nata in Italia, a Perugia, membro del forum delle donne musulmane, è arrivata al traguardo a 31 anni. Il suo caso ha fatto discutere molto perché la sua richiesta di cittadinanza è stata annullata per via di un disguido burocratico: suo padre si era dimenticato di comunicare il cambio di residenza e nei suoi 18 anni di residenza continuativa necessari per fare la richiesta alla prefettura c’era un buco nero di tre mesi. E così la sua pratica è stata annullata e ha dovuto ripartire da capo. E per questo si definiva “un’italiana dimezzata”. Lei dice che non era per via della sua fede, del suo velo, della sua appartenenza all’associazione dei giovani musulmani, ma solo un disguido burocratico e non una conseguenza di un pregiudizio, di una diffidenza per la sua “militanza” religiosa. Sia come sia lei, che per rimanere in Italia ha preso due lauree perché solo così ha potuto avere un permesso di soggiorno per motivi di studio, ora che è arrivata al traguardo e la sua richiesta è stata accolta ha messo la bandiera italiana nel salotto. “Le mie figlie ci giocano”, dice. Anche se magari i suoi amici italiani ogni tanto sono un po’ perplessi perché la bandiera tricolore fa troppo patria-famiglia-e-folgore. “Ma a me non interessa”, ci ha detto. “Io ho aspettato 31 anni prima di diventare italiana e poi alla fine, sarà un paradosso, ma è stato un governo di centrodestra a darmi un diritto che mi spettava”.

E’ difficile sapere con precisione cosa sia l’italianità per i ragazzi figli di stranieri nati qui che sognano la cittadinanza. Alcuni vivono in un mondo separato, per nulla inserito nella società in cui sono cresciuti, altri invece dimostrano di avere una cultura generale superiore ai loro coetanei italiani. Sabrina, brasiliana, ha scritto sul blog delle seconde generazioni: “L’italianità è sentirsi a casa perché è questo che l’Italia per me rappresenta: la casa. Ma ogni tanto mi dimentico che l’Italia è una nazione appartenente all’Unione europea, uno stato semicircondato dal mare e confinante a nord con la Francia, la Svizzera, l’Austria e la Padania. L’Italia è una macchina burocratica lenta e ingiusta. l’Italia, è una parola vuota sulla bocca di tanta gente, che sembra prendere forma solo quando si tratta di definire ciò che è estraneo, che è diverso e per questo meno prezioso. L’Italia è una massa di gente per cui io sono e resto una straniera qualunque cosa faccia. Io però sono più furba e mi tengo stretta la mia di Italia”. Il filo conduttore della lamentela, dello sfogo, del timore di non essere accettati, va di pari passo, fra i giovani stranieri, con il desiderio ossessivo di diventare italiani. Anche se fra i giovani musulmani più rigorosi molti ritengono di essere prima islamici, membri di una fratellanza religiosa, e tutto il resto non conta. Ma non è sempre così.

Aziz Sadid per esempio è un giovane di Reggio Emilia, nato a Casablanca. Ha chiesto di diventare italiano da pochi mesi e nel frattempo insegue la laurea in Lettere e filosofia. A lui in questura non hanno fatto alcun quiz di integrazione perché già lo conoscevano, sapevano in quale moschea pregava, a quali associazioni apparteneva, e non ha avuto alcun timore. “A mio padre hanno fatto molte domande sulla sua fede, sulla moschea in cui prega, prima di dargli la cittadinanza, a me no”, racconta al Foglio. “Ho creato un’associazione di giovani aperta agli italiani e sanno che io mi sento italiano anche se sono nato a Casablanca. Penso che non ci si debba chiudere al mondo in cui viviamo, ma semmai accettarlo con gratitudine. Al colloquio non mi hanno chiesto della mia fede, ma solo se ero pronto a rinunciare alle mie tradizioni e alla mia cultura d’origine e io non ho avuto dubbi. Nella mia stanza ho appeso la bandiera tricolore”, giura Aziz, “e non me ne vergogno. L’ho fatto quando abbiamo vinto i mondiali”. A lui non hanno chiesto quali sono gli articoli della Costituzione italiana perché lui la conosce a memoria, ci ha detto. “E’ il testo più moderno e completo che sia e infatti ho fondato un’associazione che si chiama generazione articolo 3, l’articolo della Costituzione che afferma: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…”.

Certo, fino a qualche anno fa Aziz aveva un conflitto interiore fra i due modelli culturali che lo disturbava molto, ci ha raccontato, una specie di strana nostalgia per Casablanca, per delle tradizioni che si scontravano con la sua vita in Italia. Ma poi, così ci ha detto, ogni volta che tornava in Marocco si sentiva sempre più estraneo, e allora ha preso una decisione, una posizione netta: quella di essere emiliano. “Per me ottenere la cittadinanza ha un solo significato: serenità. Come tutti i miei coetanei che frequento, sento che fino a quando non l’otterrò mi mancherà un pezzo di qualcosa. Che sono un ragazzo di 23 anni, pieno di aspettative, ma incompleto. Voglio votare, voglio partecipare alla vita sociale e politica del paese in cui sono cresciuto e non voglio essere rimandato indietro, alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi di studio, non voglio tornare in Marocco, che non è più il mio paese”.

Sì, perché se molti cedono a una deriva identitaria, culturale e religiosa, e anzi guardano con sospetto chi richiede la cittadinanza, quasi fosse un atto di sottomissione, per gli altri, per quelli che ci credono e ritengono che l’integrazione non sia omologazione, la paura è un’altra. Non vogliono assomigliare ai loro genitori che spesso, ancora dopo tanti anni, non parlano italiano e avrebbero voluto tornare a casa. E temono che, se non otterranno la cittadinanza italiana possano perdere il permesso di soggiorno. E non vogliono tornare al punto di partenza, dove sono partiti i loro genitori, dentro un passato a cui non appartengono. (2.fine)

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Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/3667

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Siamo citati anche in questo post sul blog di Andrea Sarubbi che parla del sopracitato articolo su Il Foglio: http://andreasarubbi.wordpress.com/2009 ... il-foglio/

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