25 ottobre 2009
L'Italia a chi la ama/2
Racconti dal sottosuolo di chi attende la cittadinanza e di chi ce l’ha fatta
Le palpitazioni durante le file in questura. La paura di non farcela a superare il colloquio per il rinnovo del permesso di soggiorno. Con quella sensazione amara per un’esistenza precaria, priva di un’identità certa. Con quel conflitto interiore che non si riesce mai a placare. E la sensazione di estraniamento che non si attenua mai. A leggere le testimonianze sul blog degli immigrati di seconda generazione, l’attesa, la speranza di ottenere la cittadinanza italiana non è soltanto una rivendicazione sociale e politica, ma un pensiero ridondante, quasi ossessivo. Un diritto per loro che sono nati o cresciuti in Italia, che dovrebbe essere automatico, che nessuno dovrebbe più confutare.
Sul sito www.secondegenerazioni.it (da cui è prese la foto) si leggono i loro racconti, una specie di flusso di coscienza, un rituale sfogo corale nei confronti di un paese, l’Italia, dove non si sentono mai del tutto a casa e verso il quale provano spesso anche molta acredine, che li relega in un microcosmo serrato. E infatti loro, indipendentemente dal paese di origine dei genitori o della loro fede, i ragazzi cresciuti o nati qui si considerano solo seconda generazione, G2. Un logo che serve a differenziarsi, a non dimenticarsi mai che non sono del tutto italiani, e che forse fa presagire un conflitto culturale che poco c’entra con la religione, ma riguarda soprattutto, con l’appartenenza, l’integrazione parziale.
Scrive infatti Zhanxing Xu il 21 Settembre 2009: “Sveglia alle 6 e 45, una veloce sciacquata e poi subito alla stazione a prendere il treno delle 7 e 24. L’attesa dell’autobus e poi alla questura di Grosseto. Intanto mille domande scorrono veloci nella mia testa: come sarebbe andata questa volta? Cosa sarebbe successo? Mi sarebbero uscite le lacrime come l’ultima volta? Tante, troppe le preoccupazioni. Arrivo in questura alle 8 e 35, fila d’una decina di persone, due poliziotte allo sportello con la macchinetta per rilevamento impronte. Mi siedo e aspetto. Le gambe cominciano improvvisamente a tremare, le mani si chiudono in pugni stretti che cercano di scaricare la tensione, intanto tutta l’energia si accumula all’altezza dello stomaco, un ammasso gigantesco simile a un ordigno pronto a scoppiare. Brividi, continue scosse in tutto il corpo, i denti digrignano, sguardo nel vuoto, Mi sento VULNERABILE, INDIFESA, SOLA. E’ una lotta continua, prima di tutto con me stessa, con le istituzioni e con i pregiudizi e vincerò io presto, ne sono certa” .
Certo, nella scelta dei toni, dal timbro dei loro sfoghi, emerge un po’ di vittimismo. Ma poi, quando si parla con loro, che quando tornano nei paesi di origine dei loro genitori si sentono estranei a meno che siano guidati dai dogmi della fede, emerge quasi un patriottismo, almeno sul piano verbale, che stupisce. Saba per esempio vive a Milano ed è un’eritrea italiana. Sindacalista, ha ottenuto la cittadinanza qualche anno fa e ora assiste, affianca, chi cerca di diventare italiano, ad ogni costo. Ai suoi “clienti” lei non dice mai di essere una dei nuovi cittadini italiani, quasi si vergognasse un po’ di essere stata più fortunata degli altri. Allo stesso tempo però è lei stessa, che quando ha giurato sulla Costituzione italiana ha pianto, ad ammettere che molti stranieri, soprattutto se sono adulti e di recente immigrazione, non chiedono la cittadinanza per attaccamento al nostro paese, ma perché ritengono che sia solo un’opportunità. Oppure, qualche volta addirittura una resa, una sconfitta, perché sognavano di tornare a casa, e invece sono rimasti qui. L’idea che Saba ha dell’Italia è un po’ da cartolina: le gondole di Venezia, i tesori artistici di Venezia, la cialtrona simpatia degli italiani che lei, sindacalista della Cgil, non considera affatto razzisti, semmai un po’ superficiali. “Quando viaggio mi manca il traffico, lo smog, l’inquinamento di Milano. Io adoro l’Italia”, dice al Foglio.
Sumaya Abdel Qader, giordano-palestinese nata in Italia, a Perugia, membro del forum delle donne musulmane, è arrivata al traguardo a 31 anni. Il suo caso ha fatto discutere molto perché la sua richiesta di cittadinanza è stata annullata per via di un disguido burocratico: suo padre si era dimenticato di comunicare il cambio di residenza e nei suoi 18 anni di residenza continuativa necessari per fare la richiesta alla prefettura c’era un buco nero di tre mesi. E così la sua pratica è stata annullata e ha dovuto ripartire da capo. E per questo si definiva “un’italiana dimezzata”. Lei dice che non era per via della sua fede, del suo velo, della sua appartenenza all’associazione dei giovani musulmani, ma solo un disguido burocratico e non una conseguenza di un pregiudizio, di una diffidenza per la sua “militanza” religiosa. Sia come sia lei, che per rimanere in Italia ha preso due lauree perché solo così ha potuto avere un permesso di soggiorno per motivi di studio, ora che è arrivata al traguardo e la sua richiesta è stata accolta ha messo la bandiera italiana nel salotto. “Le mie figlie ci giocano”, dice. Anche se magari i suoi amici italiani ogni tanto sono un po’ perplessi perché la bandiera tricolore fa troppo patria-famiglia-e-folgore. “Ma a me non interessa”, ci ha detto. “Io ho aspettato 31 anni prima di diventare italiana e poi alla fine, sarà un paradosso, ma è stato un governo di centrodestra a darmi un diritto che mi spettava”.
E’ difficile sapere con precisione cosa sia l’italianità per i ragazzi figli di stranieri nati qui che sognano la cittadinanza. Alcuni vivono in un mondo separato, per nulla inserito nella società in cui sono cresciuti, altri invece dimostrano di avere una cultura generale superiore ai loro coetanei italiani.
Sabrina, brasiliana, ha scritto sul blog delle seconde generazioni: “L’italianità è sentirsi a casa perché è questo che l’Italia per me rappresenta: la casa. Ma ogni tanto mi dimentico che l’Italia è una nazione appartenente all’Unione europea, uno stato semicircondato dal mare e confinante a nord con la Francia, la Svizzera, l’Austria e la Padania. L’Italia è una macchina burocratica lenta e ingiusta. l’Italia, è una parola vuota sulla bocca di tanta gente, che sembra prendere forma solo quando si tratta di definire ciò che è estraneo, che è diverso e per questo meno prezioso. L’Italia è una massa di gente per cui io sono e resto una straniera qualunque cosa faccia. Io però sono più furba e mi tengo stretta la mia di Italia”. Il filo conduttore della lamentela, dello sfogo, del timore di non essere accettati, va di pari passo, fra i giovani stranieri, con il desiderio ossessivo di diventare italiani. Anche se fra i giovani musulmani più rigorosi molti ritengono di essere prima islamici, membri di una fratellanza religiosa, e tutto il resto non conta. Ma non è sempre così.
Aziz Sadid per esempio è un giovane di Reggio Emilia, nato a Casablanca. Ha chiesto di diventare italiano da pochi mesi e nel frattempo insegue la laurea in Lettere e filosofia. A lui in questura non hanno fatto alcun quiz di integrazione perché già lo conoscevano, sapevano in quale moschea pregava, a quali associazioni apparteneva, e non ha avuto alcun timore. “A mio padre hanno fatto molte domande sulla sua fede, sulla moschea in cui prega, prima di dargli la cittadinanza, a me no”, racconta al Foglio. “Ho creato un’associazione di giovani aperta agli italiani e sanno che io mi sento italiano anche se sono nato a Casablanca. Penso che non ci si debba chiudere al mondo in cui viviamo, ma semmai accettarlo con gratitudine. Al colloquio non mi hanno chiesto della mia fede, ma solo se ero pronto a rinunciare alle mie tradizioni e alla mia cultura d’origine e io non ho avuto dubbi. Nella mia stanza ho appeso la bandiera tricolore”, giura Aziz, “e non me ne vergogno. L’ho fatto quando abbiamo vinto i mondiali”. A lui non hanno chiesto quali sono gli articoli della Costituzione italiana perché lui la conosce a memoria, ci ha detto. “E’ il testo più moderno e completo che sia e infatti ho fondato un’associazione che si chiama generazione articolo 3, l’articolo della Costituzione che afferma: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…”.
Certo, fino a qualche anno fa Aziz aveva un conflitto interiore fra i due modelli culturali che lo disturbava molto, ci ha raccontato, una specie di strana nostalgia per Casablanca, per delle tradizioni che si scontravano con la sua vita in Italia. Ma poi, così ci ha detto, ogni volta che tornava in Marocco si sentiva sempre più estraneo, e allora ha preso una decisione, una posizione netta: quella di essere emiliano. “Per me ottenere la cittadinanza ha un solo significato: serenità. Come tutti i miei coetanei che frequento, sento che fino a quando non l’otterrò mi mancherà un pezzo di qualcosa. Che sono un ragazzo di 23 anni, pieno di aspettative, ma incompleto. Voglio votare, voglio partecipare alla vita sociale e politica del paese in cui sono cresciuto e non voglio essere rimandato indietro, alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi di studio, non voglio tornare in Marocco, che non è più il mio paese”.
Sì, perché se molti cedono a una deriva identitaria, culturale e religiosa, e anzi guardano con sospetto chi richiede la cittadinanza, quasi fosse un atto di sottomissione, per gli altri, per quelli che ci credono e ritengono che l’integrazione non sia omologazione, la paura è un’altra. Non vogliono assomigliare ai loro genitori che spesso, ancora dopo tanti anni, non parlano italiano e avrebbero voluto tornare a casa. E temono che, se non otterranno la cittadinanza italiana possano perdere il permesso di soggiorno. E non vogliono tornare al punto di partenza, dove sono partiti i loro genitori, dentro un passato a cui non appartengono. (2.fine)
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© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO
di Cristina Giudici