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MessaggioInviato: 18 feb 2010, 19:23 
G2 con doppia cittadinanza
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È in gioco il futuro di un'Italia più dinamica e plurale

Perché l'integrazione non sia una guerra tra poveri


di Gennaro De Vivo

Per la Chiesa cattolica l’integrazione è una sfida umana e pastorale, mentre la multiculturalità ed il rispetto delle differenze costituiscono il mezzo per vincerla. Seconda generazione? No grazie, chiamateli figli di immigrati: alcuni di loro parlano un italiano colto, disquisendo anche su paternalismo e xenofobia. Hanno gli occhi a mandorla o la pelle scura, tifano per le nostre squadre di calcio, giocano e vanno a scuola con i nostri ragazzi: vogliono essere chiamati “figli di immigrati”, perché non sono loro quelli che hanno deciso di emigrare. Nella maggior parte dei casi sono nati in Italia o sono immigrati in tenera età. L’Italia la amano eccome, è la loro terra: parlano l’italiano con accento veneto o romanesco e pregano Dio in modo diverso dal nostro, studiano la nostra Costituzione, ma possono chiedere la cittadinanza italiana solo a 18 anni.

Sono circa 860mila i minori figli di immigrati secondo l’ultima rilevazione Istat, il 40% nato in Italia: un numero in costante aumento e, si prevede, che già nel 2012 uno studente su 7 sarà figlio di immigrati; l’età media degli immigrati è di 31 anni contro i 43 degli italiani. Cifre che parlano di un futuro imminente tutto da costruire. Per tale ragione occorre indagare oltre i pregiudizi ideologici e le effettive difficoltà legate alla prima immigrazione, per cercare di capire chi sono, che cosa chiedono e quale ruolo potranno avere questi ragazzi nell’Italia di domani. Occorre partire da un dato oggettivo, ovvero che i figli di immigrati sono, loro malgrado, un ponte che ha due possibili uscite: l’incomunicabilità e il conflitto o la ricchezza di una società plurale, accettata e condivisa. Ma essere ponte è difficile quando si è bambini e, soprattutto, adolescenti sospesi tra due culture, due universi, due vite, proprio nella fase di costruzione della propria identità. L’essere non riconosciuti, stranieri a casa propria, ed essere, al contempo, incasellati in stereotipi, sono i crucci più grandi di questa nuova generazione di italiani.

Il segno più evidente del non riconoscimento è l’iter burocratico difficilissimo per ottenere la cittadinanza italiana. Per il nostro diritto, infatti, vale il principio dello jus sanguinis, cioè della cittadinanza legata alla provenienza dei genitori e non dello jus soli, cioè della cittadinanza legata al luogo di nascita. La cittadinanza può essere richiesta a 18, ma l’iter non è scontato: un progetto di legge bipartisan per riformare le procedure ed i requisiti per ottenere la cittadinanza è in discussione alla Camera ma, intanto, i figli di immigrati nati a Milano o a Palermo, pur non avendo mai messo piede fuori dall’Italia, non sono italiani e passano l’adolescenza con l’incubo dei documenti. Tristezza, a volte rabbia, ma anche problemi concreti: senza cittadinanza non si può andare in gita di istruzione all’estero, non si possono fare i concorsi, né si può accedere a certi lavori. Due pesi e due misure, per italiani della stessa età. Questi giovani, che non hanno le stesse opportunità degli italiani, a differenza dei loro genitori hanno studiato, conoscono le regole e ambiscono ai diritti; inoltre, venendo dal basso, hanno voglia di affermarsi, di affrancarsi dalla storia dei loro genitori e sono disposti a fare sacrifici pur di riuscirci, spesso più dei nostri giovani che noi adulti abbiamo cloroformizzato nel tempo prolungandone l’adolescenza fin quasi ai 40 anni. Tra i nostri banchi scolastici sono rappresentate ben 187 cittadinanze su 194 stati, come a dire che c’è tutto il mondo a scuola.

Mentre sale l’allarme sociale sulla pericolosità dei giovani immigrati (con riferimento, in particolare, ai recenti episodi di Rosarno e di Milano), le ricerche incrociate, riportate nel dossier statistico 2009 di Caritas-Migrantes, forniscono un quadro ben diverso: tra gli stranieri regolari il tasso di criminalità è analogo a quello degli italiani, tra gli irregolari è più alto a causa della maggior precarietà e facilità ad essere coinvolti nelle spire della criminalità organizzata. La paura, tuttavia, ha anche le sue ragioni. Infatti il processo migratorio in Italia è stato troppo veloce e mal gestito poiché il peso dell’immigrazione è stato quasi del tutto scaricato sulle spalle della parte più debole degli italiani. Una guerra tra poveri per un posto in asilo nido o per un letto in ospedale: difficoltà concrete che non aiutano a capire le ragioni dell’altro.

Coscienti delle difficoltà e delle contraddizioni, occorre compiere uno sforzo per guardare avanti e per non condannarsi a un futuro già scritto: in molti casi, infatti, dietro la paura si nasconde un’opportunità. La paura più forte riguarda il ruolo della religione, specialmente per i giovani immigrati musulmani. In alcuni casi, sono innegabili gli atteggiamenti fondamentalisti, ma la stragrande maggioranza dei giovani immigrati ha un rapporto tiepido con la fede. Il primo dato da sfatare è, quindi, quello dell’invasione islamica: stando alle proiezioni attuali, nell’Italia di domani i musulmani saranno meno dei cristiani ortodossi. A tal proposito, giova ricordare che la Chiesa cattolica è stata una grande risorsa di aggregazione e di integrazione per i nostri immigrati in America: se da un lato, infatti, l’istituzione religiosa ha consentito di conservare la propria identità d’origine, dall’altro è stata il primo laboratorio per iniziare a trasformarla, favorendo l’inserimento e l’integrazione nelle società riceventi. Pertanto, in maniera del tutto analoga, il modo più efficace per contrastare il fondamentalismo religioso è quello di favorire il radicamento di un islam italiano, che parli con le istituzioni e con il territorio. Il contrario – ovvero non concedere luoghi d’incontro e di culto – alimenta l’ostilità, l’emarginazione e la radicalizzazione delle diversità: in certi casi, infatti, attaccarsi alla propria identità rimane l’ultima risorsa.

Se in campo religioso gli italiani temono l’islamizzazione, in campo scolastico temono la babele: una confusione di lingue e di etnie che compromette il rendimento scolastico degli alunni. Di qui la fuga delle famiglie dalle scuole ad alto tasso di immigrati ed il rischio di creare scuole-ghetto. Già oggi 4 alunni su 10 sono di origine straniera e, pertanto, le differenze linguistiche e culturali saranno sempre meno incisive. La scuola dovrebbe, quindi, essere il primo luogo d’integrazione e di educazione alla diversità ma - se tutto il peso di questo cambiamento culturale graverà sulle spalle di insegnanti che, pur pieni di buona volontà, sono privi di mezzi e di adeguata preparazione – è chiaro che i problemi permarranno. È, quindi, proprio sulla scuola che bisognerà investire per assicurarsi un nuovo futuro: infatti la differenza, se valorizzata e compresa, diventerà una leva fornendo valore aggiunto.

La prima cosa che un bambino impara di fronte alla diversità è il rispetto, la seconda la solidarietà. La nuova generazione di italiani interroga la società e le istituzioni in modo pressante, ma anche ricco di possibilità, spingendoci a ripensare che cosa significa essere italiani e quali sono davvero i nostri valori. La sfida è grande, ma la storia non è stata ancora scritta: c’è in gioco un’Italia più accogliente, più dinamica e plurale, capace di vincere le competizioni che la globalizzazione ci ha imposto.

19 febbraio 2010

Fonte: http://www.ffwebmagazine.it/ffw/page.as ... te_Arti=24

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