Cita:
"Dopo 25 anni è finito l'incubo del permesso"
Ho vinto la lotteria. Nel 2008 mi è stata concessa la tanto attesa cittadinanza italiana dopo 25 anni, una vita, a Roma. A decidere il mio ingresso tra i cittadini di serie A non sono state infanzia, adolescenza e maturità trascorse all'interno delle mura della capitale ma il matrimonio con un romano da generazioni, per di più romanista. Un'unione che da sola ha permesso il superamento di un traguardo non facile, liberatorio e dolceamaro allo stesso tempo. Una strada più lunga e meno certa, quella della cittadinanza per residenza, l'avevamo già tentata in passato senza successo. Parlo al plurale perché dietro ad ogni richiesta di cittadinanza di un figlio di immigrati c'è spesso l'ansia di un genitore dispiaciuto di aver costretto anche la prole a superare le mille prove del vivere in Italia col passaporto straniero. Una preoccupazione poi amplificata dai risultati negativi: la mia prima richiesta di cittadinanza, presentata che ero ancora una giovane e speranzosa fanciulla, dopo giri e rigiri burocratici d'ogni tipo, era stata bocciata. In quell'occasione lo Stato italiano aveva ritenuto rilevante il solo dato economico, "Quanto guadagni? Come campi?" per dire che non ero degna, anche se in Italia ero arrivata a soli 7 anni per motivi familiari, non per mia scelta e certo non per cercare lavoro. Il reddito come massimo (e unico) indice di inserimento nella società piuttosto che i tanti anni di scuola, esperienze, conoscenza e vita tra le strade della mia città. Tutta roba secondaria che a quel punto potevo anche buttare nel mondezzaio perché a niente era servita per essere riconosciuta parte del Paese dove ero cresciuta.
Riguardo a quel periodo nero ricordo di aver pensato spesso "chissà chi avrà spinto il piccolo pulsante perché restassi nella melma, giù in basso con i forzati del permesso di soggiorno. E chissà quanti minuti saranno bastati per cancellare tanti anni". Da lì in poi la vita ha proseguito il suo cammino ma senza dimenticare e senza nessuna intenzione di rinunciare o di chiedere favori a qualche santo in paradiso, fino al commovente matrimonio e alla successiva nuova richiesta di cittadinanza. Stavolta accolta positivamente dopo altri 3 anni di attesa, con tanto di giuramento e famiglia tutta presente, più gentile omaggio della Costituzione italiana ("un'altra? Grazie metterò anche questa in bella mostra accanto al libro di educazione civica delle elementari, sa, a scuola l'abbiamo già studiata"). Cosa è cambiato dopo il lieto fine? Innanzitutto ho finalmente votato, con un ritardo di 14 anni rispetto ai miei coetanei. Così per la prima volta non mi sono limitata ad aspettare gli amici fuori dal seggio elettorale, come un cane col divieto di entrare. Non dovrò più rinunciare a momenti irripetibili come il matrimonio del mio unico fratello, sposo in un altro continente, che non raggiunsi perché ancora in attesa del rinnovo dei documenti. Dopo tanti e tanti anni a vivere col permesso di soggiorno, 3 quarti della propria esistenza, con l'infanzia, adolescenza ed età adulta condizionati dall'incertezza di essere legati ad un pezzo di carta, è assolutamente incredibile sentirsi finalmente liberi, osare respirare. Chi non l'ha vissuto forse non può capire quanto conti: è l'unico motivo che può spiegare, ma non giustificare, il fatto che l'Italia non abbia ancora risolto il dilemma degli "italiani col permesso di soggiorno". Che non abbia ancora votato una modifica della legge sulla cittadinanza più aperta verso le seconde generazioni . Dove si riconoscano il prima possibile parte irrinunciabile di questo Paese i bambini e adolescenti che crescono nelle città italiane, molti di loro anche nati qui.
Per tutti loro non si può pensare alla cittadinanza e a diritti importanti come a un traguardo da permettere solo dopo anni di calvario o dopo un test che sancisca quello che sono e sanno già (dopotutto a cosa servono le scuole italiane se non a imparare?). Non possiamo dire a bambini e adolescenti che dovranno pagare per colpe mai commesse. Non possiamo permettere che le loro esistenze siano esili come fogli di carta: non valgono meno dei loro compagni di scuola e di vita, italiani da generazioni. (paula baudet vivanco) (23 novembre 2008)
Fonte: metropoli la repubblica