made in italy
Francisca Paz Rojas è nata a Santiago del Cile nel 1974. Vive in Italia da quindici anni, si occupa di letterature straniere, teatro, poesia e multiculturalità. Ha frequentato il Csrt (Centro sperimentale di ricerca teatrale) di Pontedera (Pi). Conduce laboratori di scrittura e linguaggio teatrale rivolti a bambini e adolescenti. Traduce dallo spagnolo e dall'italiano. Fa parte della redazione della rivista Letra-Hora di psicoanalisi e cultura. Alcune sue poesie sono state pubblicate nelle riviste Il Vascello di carta, Pagine, la Mosca, il Caffè e nelle riviste on-line El-Ghibli, Saragana, Kuma, Bollettino Fuoricasa. Organizza attività culturali con l'associazione Hortense e realizza performance di azione e poesia.
Io e il cane di Alvin, nello Stato di Sicurezza
Francisca Paz Rojas
Siamo giunti al confine. Il cane di Alvin e io ci siamo separati una sera fredda e umida in un angolo di questa sfibrata città. Ora posso parlarti con il cuore tranquillo pronto ad emigrare, posso raccontarti del mio arrivo e di me. Sono giunta sulla linea bianca tratteggiata, vestita da cowboy, con un livido in fronte, dalla notte precedente, sono giunta ubriaca e inerme, come poteva essere altrimenti. Ho spostato una grande pietra dietro di me e sono scappati i vivi. Sono passati quindici anni da quella data, e una notte sempre umida e turbolenta incontrai il cane di Alvin.
Il cane di Alvin e io abbiamo vissuto due anni terribili e intensi, nel pieno dello Stato di Sicurezza. Ci abbiamo creduto e ci siamo trascinati per le strade gonfi di una tentata diserzione che non saremmo riusciti a mettere in pratica. Alvin, suo padrone, non era male, è siciliano, e quindi possiede una lingua che amo, capace di scolpire la cosa, di frustare il pensiero e di plasmare menzogna e parte del vero. E' uno che possiede il gesto, e invoca riti mentre parla. L'italiano. Quella lingua che sta strangolando, sensualmente, la mia lingua madre, che è il terzo sempre presente, l'infanzia, il segreto. La lingua della madre, che è il poeta ma non la poesia, perché questa è viva, e porta sulla punta la vergogna. La porta qui, piano, a testa bassa, non sia mai un dominio, la porto fra umori oscuri in un corpo abbandonato che si orienta fra il desiderio e la voce critica concessa dagli amici, fra la negazione e il battito di un tatto nuovo che non si può dissimulare. Lo sai, sono dimezzata. Nel giorno libero salgo sul Civico-Tram, una specie di giostra blindata guidata a cerchi concentrici dal Nettuno alla periferia, doveva essere un mezzo interetnico spaziale, ma è il solito giocattolo. Salgo per lasciare ritorcersi i pensieri, l'alambicco ha tre assi e una latitudine che ormai si sta sfaldando. Nella vena ho il materiale sull'intervento dei nazi in Cile, l'intervento degli Usa nel mio paese, l'intervento dell'intervento nel continente, tutto ciò paradossalmente tradotto al tedesco.
Da far leggere a chi forse lo sa già e continua a ignorarlo, o a considerarlo storia. Fuori la gente. Va di moda fra alcuni, l'elmetto militare, affinché non si distingua niente da nessuno, e altri con il passamontagna e pure i manichini con il passamontagna, che pur un senso ha, a dire di questa reversibile condizione dell'essere, altri ancora girano con vestiti di colore spaiato, e mamme conducono anche fino a dieci bambini vestiti a festa o con pezzi regalati, altre strattonano i loro bambini correndo dalla farmacia al parco, c'è chi ha fame, di quella che conosciamo. Mentre si corre, lentissimamente, aiutati dal traffico e dal civico T, volano sulla testa svastiche come boomerang che vanno a incrostarsi nei muri dai colori caldi di questa paziente città.
Ma dove siamo? E quando siamo? Le scanso, perché sono invisibile, o quasi, perché posso rifugiarmi nei corpi accoglienti dei miei compagni, nei miei libri, nei miei pensieri paravento, nei bar sulle bocche dei bicchieri, o insomma con l'altro con cui si fatica a non farsi abusare al lavoro. Sui muretti non ci sono più andata. E a volte si può vedere questa strana danza per schivare non solo gli oggetti che volano ma anche le parole macigno dei servizi non più segreti che infrangono le piccole parole, che scagliano divieti togliendo tanto respiro, e fanno legge di ciò che la corrompe. Il cielo oggi è limpido, e penso al seno dell'amica, alla malattia, alla mia generazione di trapiantati da un sogno di comunità ad un grande vuoto al neon, ho un sacco magico dove entro e mi collego con le lapide che non sono riuscita a salutare. Il mio futuro su un Atlantico che non ho mai visto. E tutto il resto di me si domanda del perché ostinarsi a non dare un nome al cane, e perché darglielo se in fondo si è ingozzato di tutto il male che poteva trovare sulle strade, e come se non gli bastasse, il veleno è andato a comprarlo. E perché darglielo poi se i nomi sono così rosicati? E perché io dovrei dare un nome al dolore, a un cane che non è neppure diventato un cane selvaggio ma solo un segno della rabbia e l'ombra mediocre di un patto fra gli uomini che non c'è? E soprattutto perché qualcuno non s'interessa nel cambiare il nome alla signora Cittadinanza, vecchia storpia, con un ventre che non contiene più il suo significato e rischia di annegare con tutte le creature dentro.
Io non mi faccio addomesticare, non posso, sono troppo una bestia per dover naturalizzarmi ancora, che non si può. Vorrei da bestia creaturale, i diritti. Qualcosa bisogna fare con il dolore, come dice il grande poeta. Mi hai lasciato sola. E guardando fuori dal finestrino mentre una vecchietta mi parla e ricorda insieme a me quello che io non posso ricordare, i tempi, - non sono affatto fiera di essere ignorante - ma penso di poter riconoscermi, mentre trattengo il mio accento per non rompere l'incantesimo della confessione, mentre si bagnano gli occhi, vedo fuori posizionati i mega schermi, nei punti nevralgici, in alto, che fanno scorrere le notizie, e per quelle di obbligo di dominio comune, suona un fischietto, e allora bisogna ricordare che per ogni notizia messa in luce ce ne sono almeno due messe al bando, e dietro a queste ci sono almeno due banditi, ovvero due persone che giacciono senza difesa da qualche parte, oppure che qualcuno recintato dentro un porcile, è tenuto d'occhio da un aguzzino che scodinzola mentre ripete brevi litanie di derisione. Le vecchiette, strette alla borsa, vanno fino alla fermata di Buona Speranza, sperando che qualcuno faccia loro capire il senso in questo marasma di senso. Facci capire qualcosa, traducicelo, sbatticelo, fai che questa città torni ad essere un fiume, una risaia, un porto. Scendo dal tram e mi cala la pelle di lucertola fra i sampietrini, l'immagine senza enigma, ma tanto piena di appellativi altrui, da rendersi specchio spaventoso. Si, sono l'altro e continuo a ballare dentro, anche se a volte la forza è poca e il latrato immaginario che mi porto dentro trafigge la memoria. In fondo quello che mi ha fatto perdere fiducia nel cane di Alvin era la sua tendenza all'oblio, o alla rimozione, una specie di parassita che a colpetti deforma la realtà e rende banali, rende banale persino il perdono.
Cristo!, ma quanto amavo quel cane, borioso e splendido. Devo ammettere che la mia latente condizione luttuosa e il secernere digressioni e estraneamenti non aiutano per niente, le relazioni, e perciò mi ci vuole un po' a trovare il moto di spirito e ad entrare nel proverbio, si sa, lo straniero lo afferra, forse, dopo un tenace movimento di abbandono e attenzione, un empatico e silenzioso apprendimento. Torno a casa, meglio, mi aggiro guardinga, non sia mai che lo incontri, il cane di Alvin. Torno a casa, a due passi da dove la vita di un ragazzo è stata derubata, violentata, massacrata, l'11 marzo del '77. Dove ogni anno un letto di bottiglie di birra e di vino si riempie di rose e si è un po' meno sconfitti, grazie al ricordo. Ma la morte c'è, alita e ha il cranio di piombo. In altre forme, in altri volti. A Ferrara per esempio. A Genova per esempio. A piccoli passi si scava il discorso per un fratello, si risponde, si contesta, si denuncia, in ascolto, in modo irruente.
Non sarà sicuramente lo sguardo straniero dell'italiano a cristallizzarci, a lasciarci a ripetere come un giradischi vuoto, ma può essere la testa di uno che non conosco né mi conosce ma che c'è costantemente e sottrae. Ma non ci sgretoleremo. Crediamo possa accadere il contrario. Ora che è notte per tutti, visto la mancata energia, e le osterie devono chiudere, approfitto di infilarmi sotto le lenzuola, ascoltare il polacco e leggere in cinese. Ti ho lasciato solo anche io, ho tolto l'ala, ho emesso giudizi, ora che vedo svanire le frontiere, e che per fortuna qui un muro divisorio non c'è, penso che si possano mutare i confini. L'ultima volta che ti ho visto per caso, vomitavi sotto il portico, ci siamo guardati come due quasi sconosciuti, ma la mia mano non ha potuto negarsi la carezza sulla tua schiena grigia e rugosa. Non ci sono branchi ai quali io voglia appartenere, ma la violenza non si può cancellare, né gli uomini dimenticare. Ora che è buio e io posso sognare con un fiordo che, sradicato da una cartina, trasborda qui vivi anche i morti, c'è un pazzo che ha avuto la geniale idea di percorrere la città in macchina, per recitare con un altoparlante a pile storie semplici, letture, parole sensate che diventano armonico brusio in lontananza, in attesa della luce.
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