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Dossier

Anch’io sono Italia

Hanno gli occhi a mandorla o la pelle scura, parlano l’italiano con accento dialettale, tifano per le nostre squadre, giocano e vanno a scuola con i nostri ragazzi: sono i figli degli immigrati, vite sospese tra due culture.

di Giulia Cananzi

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FOTO: MATTEW ASHTON/AMA
«Seconda generazione? No grazie, chiamateci “figli d’immigrati”, siamo italiani noi» dice Alex, 17 anni, studente liceale, figlio di ugandesi, un viso imbronciato sotto un casco di fitti ricci neri. Parla un italiano colto, fa citazioni, disquisisce su paternalismo e xenofobia, s’atteggia come un gatto che arruffa il pelo per sembrare più grande, ottenere attenzione, dimostrare dignità. Ma poi cede al dolore: «Per strada i miei connazionali mi guardano come fossi una bomba che cammina». Sui giornali si fa un gran parlare dell’ultimo coro da stadio all’indirizzo di Mario Balotelli, la punta dell’Inter e della nazionale italiana under 21, figlio di ghanesi ma adottato da una famiglia italiana: «Non ci sono italiani negri». Il pensiero va a Mario ma poi ritorna ad Alex e a quelli come lui, a quelli che un futuro ancora non ce l’hanno.
Vogliono essere chiamati «figli di immigrati» perché non sono loro quelli che hanno deciso di emigrare. Nella maggiorparte dei casi sono nati in Italia o immigrati in tenera età. L’Italia la amano eccome, è la loro terra: parlano l’italiano con accento veneto o romanesco, hanno gli occhi a mandorla o la pelle scura, tifano Juve o Inter e pregano Dio in modo diverso, studiano la nostra Costituzione ma possono chiedere la cittadinanza italiana solo a 18 anni. Sono molti, circa 860 mila, i minori figli d’immigrati secondo l’ultima rilevazione Istat, il 40 per cento nato in Italia. Un numero in costante aumento, e c’è chi azzarda previsioni: nel 2012 uno studente su 7 sarà figlio di immigrati. L’età media degli immigrati è di 31 anni contro i 43 degli italiani.
Cifre che parlano di un futuro imminente, tutto da costruire. Per questo occorre indagare oltre i pregiudizi e le effettive difficoltà, legati alla prima immigrazione, per capire chi sono, cosa chiedono, che ruolo potranno avere questi ragazzi nell’Italia di domani. Partendo da un punto oggettivo: i figli degli immigrati sono, loro malgrado, un ponte che ha due possibili uscite: l’incomunicabilità e il conflitto o la ricchezza di una società plurale, accettata e condivisa.

Ma essere ponte è difficile quando si è bambini e, soprattutto, adolescenti sospesi tra due culture, due universi, due vite, proprio nella fase di costruzione della propria identità. Gambe fragili per un grande peso. «Non c’è bisogno che qualcuno venga a dirmi che noialtri siamo confusi – scrive Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia da genitori palestinesi, nel suo libro Porto il velo, adoro i Queen – : certo che lo siamo. Il Paese in cui nasci e cresci ti dà mille problemi, il Paese d’origine dei tuoi te ne dà altri. Insomma, ti sballottano da una parte all’altra e nessuno ti riconosce. Da un lato ci sono gli italiani che ti fanno le solite domande… del tipo se sotto il velo hai i capelli... Dall’altro ci sono i parenti, o gli arabi in generale..: “Ti sei accorta che stai diventando come loro?”… “Caro zio, se sapessi che loro mi accusano di essere come voi”».


Stranieri a casa propria

L’essere non riconosciuti, quasi stranieri a casa propria ovunque si vada, ed essere al contempo incasellati in stereotipi sono i crucci più grandi di questa nuova generazione di italiani.
Il segno più evidente del non riconoscimento è l’iter burocratico difficilissimo per ottenere la cittadinanza italiana. Per il nostro diritto, infatti, vale il principio dello jus sanguinis, cioè della cittadinanza legata alla provenienza dei genitori e non dello jus soli, cioè la cittadinanza legata al luogo di nascita. La cittadinanza si può richiedere a 18 anni, ma l’iter non è scontato. Un progetto di legge bipartisan per riformare la cittadinanza è in discussione alla Camera, ma sta spaccando la maggioranza sotto i veti della Lega. Intanto i figli di immigrati nati a Milano o a Palermo, pur non avendo mai messo piede fuori dall’Italia, non sono italiani e passano l’adolescenza con l’«incubo dei documenti». Xu, una ragazza di origine cinese che fa parte della rete G2 – la rete che ormai in tutta Italia collega i ragazzi figli d’immigrati –, racconta il rinnovo del suo ultimo permesso di soggiorno. Partenza all’alba, fila in questura, mentre aspetta sale la paura, si sente vulnerabile e sola: «Come sarebbe andata questa volta? Mi sarebbero uscite le lacrime come l’ultima volta?». Poi legge: «Sportello per stranieri... Perché sono qua? Voglio andarmene, non posso. “Xu…” mi chiamano, tocca a me. Arrivo, consegno le foto, il passaporto e sorrido perché nei momenti difficili è l’unica arma che ho. Pollice, indice, medio, anulare e mignolo, mano destra. Pollice, indice…pochi secondi che rimarranno per sempre nella mia memoria». Tristezza, a volte rabbia, ma anche problemi concreti: senza cittadinanza non si può andare in gita d’istruzione all’estero, non si possono fare i concorsi, né accedere a certi lavori. Due pesi e due misure, per italiani della stessa età.
Ma ciò che ferisce nel profondo è lo stereotipo, amplificato dai media. Nelle pagine dei giornali, il figlio d’immigrato o non c’è proprio o se c’è ha solo due chance: è un criminale o vittima di un crimine. Esempi del primo caso? Gli attentatori suicidi dell’11 settembre o della metropolitana di Madrid. Del secondo? Hina, uccisa dal padre perché troppo occidentale o Abdul ucciso da un commerciante italiano per aver rubato un pacco di biscotti. Un appiattimento mediatico, come se questa generazione fosse un unico mondo indistinguibile, fatto di giovani problematici, appartenenti a frange estremiste: una bomba a orologeria nel cuore dell’Italia.

In realtà niente è più vario, diversificato e complesso della nostra immigrazione giovanile. La maggior parte degli alunni stranieri è romena (16,2 per cento), seguono gli albanesi (14,8 per cento), i marocchini (13,3 per cento) e i cinesi (4,8 per cento). Tra i nostri banchi sono rappresentate 187 cittadinanze su 194 stati, come a dire che c’è tutto il mondo a scuola.
Mentre sale l’allarme sociale sulla pericolosità dei giovani immigrati, specie se maschi, le ricerche incrociate, riportate dal dossier statistico 2009 di Caritas-Migrantes, danno un altro quadro: tra gli stranieri regolari il tasso di criminalità è analogo a quello degli italiani, tra gli irregolari è più alto a causa della maggior precarietà e facilità ad essere coinvolti nelle spire della criminalità organizzata. Tuttavia il livello delle denunce è rimasto lo stesso dei primi anni ’90, a dimostrazione che il tasso di criminalità non è cresciuto con la crescita esponenziale dell’immigrazione di questi ultimi anni.
Una realtà con le sue ombre che tuttavia non giustifica tanta paura. «Gli adulti hanno sempre avuto paura dei giovani – afferma Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano e direttore della rivista «Mondi Migranti» – : li si ritiene senza valori e voglia d’impegnarsi. C’è traccia di questo stereotipo persino in Cicerone. La paura aumenta se si tratta di giovani provenienti dagli strati popolari, se poi questi sono anche stranieri raggiunge l’acme». In realtà il vero potenziale esplosivo non sta tanto nella diversità dei ragazzi stranieri quanto nel fatto che questi giovani non hanno ancora le stesse opportunità degli italiani. Eppure a differenza dei loro genitori, hanno studiato, conoscono le regole e ambiscono ai diritti: «Venendo dal basso hanno voglia di affermarsi, di affrancarsi dalla storia dei loro genitori e sono disposti a fare sacrifici pur di riuscirci. Spesso più dei nostri giovani, che noi adulti abbiamo cercato di cloroformizzare nel tempo, prolungando l’adolescenza quasi fino ai 40 anni».


Opportunità oltre le paure

La paura ha anche le sue ragioni. Il processo migratorio in Italia è stato troppo veloce e mal gestito. «Il peso dell’immigrazione – ha detto Aldo ****, durante la presentazione a Padova del suo libro L’Italia de noantri – è stato ed è tutto sulle spalle della parte debole degli italiani. Una guerra tra poveri per il posto in asilo nido o il letto d’ospedale». Difficoltà concrete che non aiutano a capire le ragioni dell’altro. A questo si aggiunge la resistenza tipica delle società consolidate: «Le nazioni si sono costruite sulla base di una presunta omogeneità interna: stessi tratti somatici, stessa lingua, stessa religione» spiega Ambrosini. È normale che all’inizio spaventi ciò che non si conosce. «L’Italia, tra l’altro – continua – si è sempre percepita come un Paese con scarse risorse, da cui piuttosto si emigra, mentre l’assenza di un significativo passato coloniale non ci ha abituati al meticciato come invece è successo alla Francia o all’Olanda».
Coscienti delle difficoltà e delle contraddizioni, serve uno sforzo per guardare avanti, per non condannarsi a un futuro già scritto. In molti casi dietro la paura si nasconde un’opportunità.
La paura più forte riguarda il ruolo della religione, specialmente per i giovani immigrati musulmani. In alcuni casi sono innegabili gli atteggiamenti fondamentalisti, ma la stragrande maggioranza dei giovani immigrati ha un rapporto tiepido con la fede. Il primo dato da sfatare è l’«invasione islamica»: stando alle proiezioni attuali nell’Italia di domani i musulmani saranno meno dei cristiani ortodossi.

Secondo Ambrosini la religione è paradossalmente più una risorsa che un rischio. «È una scontata verità sociologica che delinquono di meno le persone che praticano una religione così come quelle che vivono in famiglia». E invece luoghi di culto e ricongiungimenti familiari sono largamente ostacolati nel nostro Paese. «La Chiesa cattolica – continua il sociologo – è stata una grande risorsa di aggregazione e integrazione per i nostri immigrati in America: se da un lato l’istituzione religiosa permetteva di conservare la propria identità d’origine, dall’altra era il primo laboratorio per iniziare a trasformarla, favorendo l’inserimento nelle società riceventi». Ma che dire delle moschee percepite come fucine di fondamentalisti? «Il problema non è il luogo di culto ma la formazione dell’imam. Il modo più efficace per contrastare il fondamentalismo è aiutare il radicamento di un islam italiano, che parli con le istituzioni e con il territorio, come si sta facendo in Francia. Il contrario − non concedere luoghi d’incontro e di culto − alimenta l’ostilità, l’emarginazione e la radicalizzazione. Attaccarsi alla propria identità in certi casi rimane l’ultima risorsa».

Se in campo religioso gli italiani temono l’islamizzazione, quindi la prevalenza di una sola cultura, in campo scolastico, al contrario, temono la babele: una confusione di lingue ed etnie che comprometta il rendimento degli allievi. Di qui la fuga delle famiglie dalle scuole ad alto tasso d’immigrati e il rischio di creare scuole-ghetto. In realtà i nati in Italia sono sempre di più, già oggi sono 4 su 10 alunni di origine straniera. Le differenze linguistiche e culturali saranno quindi sempre meno incisive. Anche se i problemi non mancano: «La scuola – afferma Ambrosini – dovrebbe essere il primo luogo d’integrazione ed educazione alla diversità. Se tutto il peso di questo cambiamento culturale grava sulle spalle di insegnanti pieni di buona volontà ma senza preparazione e mezzi è chiaro che i problemi permangono. Quindici anni fa a Milano c’era un insegnante addetto alla mediazione ogni 50 ragazzi di origine immigrata, oggi ce n’è uno ogni 600. E invece è proprio sulla scuola che bisognerebbe investire per assicurarsi un nuovo futuro».
La differenza, valorizzata e compresa, diventa una leva, un valore aggiunto. Lo dimostrano tante piccole esperienze, sparse per l’Italia, frutto dell’impegno degli insegnanti e dell’appoggio del territorio. L’Istituto comprensivo Daniele Manin di piazza Vittorio a Roma è la prima scuola multietnica della capitale: il 50 per cento di alunni è italiano, il restante 50 è straniero: «Lavoriamo da dieci anni sviluppando metodologie interculturali – spiega Brunella Marcelli, docente d’italiano –. Dopo la fase di emergenza, superata grazie all’Associazione genitori, nata all’interno dell’istituto, che cura l’accoglienza e l’alfabetizzazione degli alunni stranieri, le famiglie del quartiere hanno cominciato ad apprezzare il nostro modo di fare scuola di respiro internazionale e a iscrivere i loro figli». Sumaya Abdel Qader, la scrittrice, ha una figlia alle elementari a Milano: la terza generazione è già in arrivo. Inutile a dirsi, la scuola che frequenta è ad alta densità d’immigrati. Problemi? «In classe di mia figlia ci sono cinque bambini che non parlano l’italiano. La prima cosa che un bambino impara di fronte alla diversità è il rispetto, la seconda è la solidarietà: i piccoli fanno a gara per insegnare le parole ai loro nuovi compagni e per portarseli a casa. Sono molto curiosi. La diversità ti apre nuove frontiere, ti libera la mente, ti toglie la paura».
La nuova generazione di italiani interroga la società e le istituzioni in modo pressante, problematico, ma anche ricco di possibilità, costringe a ripensare per la prima volta che cosa significa essere italiani, quali sono davvero i nostri valori.
«La sfida è grande – conclude Ambrosini –, ma la storia non è ancora stata scritta. C’è in gioco un’Italia più accogliente, più dinamica e plurale. E i giovani figli d’immigrati in mezzo a noi, che vogliono giocare e studiare con i nostri figli, sono gli alfieri del nostro futuro».


I numeri

1 su 14 abitanti è di cittadinanza straniera;

1/5 degli stranieri è minorenne;

12,6% dei nuovi nati in Italia è di origine straniera;

40 mila i ricongiungimenti di minori in Italia;

7% degli alunni sono stranieri;

39.484 acquisizioni di cittadinanza nel 2008;

222.521 matrimoni misti celebrati negli ultimi 12 anni.


Fonte: Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes



Ricerche. Gusti e sogni dei nuovi italiani

Sota è giapponese, è in Italia dal ‘92 e studia all’Itis. Alla domanda, «in che cosa ti senti diverso dai tuoi compagni?», candidamente risponde: «A parte i tratti somatici, niente. Per questo continuo a non capire il senso del razzismo». Oscar – ecuadoregno, anche lui frequenta l’Itis – così immagina la compagna della sua vita: «Sincera, onesta, che le piaccia lavorare. Non vorrei una mantenuta. Vorrei che anche i miei figli s’impegnassero, non che uno arrivi a casa e mi porti un due in matematica». Anche Tahara, marocchina e musulmana, ha le idee chiare sul futuro: «Vorrei fare la poliziotta per aiutare la gente e anche perché sono coraggiosa e non vorrei buttare questo coraggio. Una mia amica, laureata, ha partecipato a un concorso, ma alla fine hanno preso un’italiana anche se non laureata. Spero che la mentalità sia cambiata per quando avrò finito gli studi. Bello sarebbe un poliziotto marocchino, dobbiamo tutti rispettare le leggi». Risoluti, impegnati, aperti, moderni e con la voglia di farcela, così appaiono i figli d’immigrati in una raccolta d’interviste, realizzata a Treviso lo scorso anno, dal titolo significativo Non chiedermi da dove vengo, ma dove vivo (Associazione Auser Cittadini del Mondo www.istresco.org).

Una fotografia confermata da un’inchiesta corposa, Nuovi italiani, condotta quasi nello stesso periodo da tre demografi (Gianpiero dalla Zuanna, Patrizia Farina, Salvatore Strozza, Ed. il Mulino) su un campione di 10 mila ragazzi figli di immigrati e altrettanti compagni autoctoni. Stupefacente il risultato che capovolge ogni pregiudizio. Le ragazze, anche le musulmane, puntano su lavoro e autonomia mentre le italiane doc quasi quasi ritornerebbero al principe azzurro e al focolare domestico. Per niente rassegnati e ripiegati in se stessi, i giovani figli d’immigrati mirano in alto, sperano di farcela, mettono in conto sacrifici, resi più forti dalle difficoltà della migrazione e dalla vita in salita dei loro genitori. Che dire dei gusti e dei consumi? Simili a quelli dei compagni italiani con i quali condividono anche la visione del mondo e le inquietudini esistenziali.



La Chiesa si mette in gioco

Meticciato di civiltà



Per la Chiesa l’integrazione è una sfida umana e pastorale mentre l’intercultura e il rispetto delle differenze sono il mezzo per vincerla. L’accoglienza dell’altro è un «test di civiltà» scrive su «Aggiornamenti sociali», monsignor Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, e per la Chiesa «una provvidenziale provocazione al rinvigorimento dell’apertura». Una spinta per l’umanità e i cristiani in particolare, «verso una visione e un impegno sempre più universali».

Un impegno che Angelo Scola, il patriarca di Venezia, incarna in prima persona non solo promuovendo istituzioni e riviste incentrate sul dialogo interculturale, ma incontrando a tu per tu i giovani figli d’immigrati, com’è successo lo scorso ottobre a Mestre (VE). La sua parola d’ordine è «meticciato di civiltà». Secondo il cardinal Scola sta avvenendo nel mondo un mescolamento di popoli e culture che è limitativo chiamare «immigrazione». «È l’inizio di una nuova fase – chiarisce – un fenomeno che in maniera così massiccia non si è mai prodotto».

Ad Alexandro, un rumeno di 19 anni, che esprime la sua difficoltà a integrarsi, Scola risponde che l’«essere buttati di colpo in una realtà diversa è una prova forte». Il processo verso una nuova civiltà meticcia «sarà lento e pieno di difficoltà. I vostri genitori hanno pagato il prezzo più alto». Ora tocca a loro spostare le lancette della storia un po’ più in là: «Voi che sapete che cosa significa, aiutate i nuovi che arrivano e sensibilizzate i vostri compagni nativi. Non abbiate paura delle difficoltà. Pensate che cosa significa per una terra antica come la nostra un cambiamento così radicale in appena dieci anni. Bisogna capire la paura dell’altro e, nel gusto appassionato di conoscersi, chiedergli “perché hai paura?”».

Per Christian, un ruandese di 18 anni, non si tratta di paura ma di razzismo. Ma Scola lo invita a non generalizzare: «Non confondere una scelta consapevole di xenofobia con una reattività istintiva, che pure colpisce ed è offensiva. Non trasformare la tua rabbia in un’ideologia. Giudica di volta in volta».

E al ragazzo che chiede perché le parrocchie non fanno di più, Scola risponde che le istituzioni sono importanti ma ciascuno deve fare la sua parte. «Sarei contento se le parrocchie s’impegnassero di più. Bisogna però chiedere diritti ma assolvere anche ai doveri. Io credo molto nello spirito d’iniziativa di ciascuno di noi. Nessuno guadagna il buono o il bene senza sacrificio. I nostri atti ci seguono. Voi siete la carta nuova che questo mondo sta giocando, accettate la sfida con coraggio».



Per saperne di più

www.secondegenerazioni.it
Il sito di collegamento dei giovani di origine straniera è nato a Roma ma è ormai presente a Milano, Torino, Napoli, Reggio Emilia, Prato e Bologna.


www.crossingtv.it
Prima web tv italiana, fatta da giovani per i giovani, realizzata da una redazione interculturale.

www.letteranza.org
Un sito dedicato ai libri degli immigrati, scritti in italiano. Si naviga tra le biografie degli autori e le recensioni alla scoperta di una nuova letteratura cosmopolita.

www.yallaitalia.it
È il mensile delle seconde generazioni, pubblicato come inserto da «Vita Magazine», la rivista più importante del no profit in Italia.


Fonte: http://www.messaggerodisantantonio.it/m ... er&ID=1896


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