Caro Sartori, chi è lo sprovveduto?Forse è un fatto generazionale. Perché la sua è una visione della storia davvero antiquata. Come un qualsiasi Messori, anche Giovanni Sartori, che appare assolutamente ragionevole quando parla e scrive delle sue cose, risulta a dir poco approssimativo quando si avventura in territori extraeuropei.
Visto che lo stimo come costituzionalista e politologo farò un’analisi puntuale del suo: “L’integrazione degli islamici” di ieri (fonte) e – by the way – cercherò di dimostrare, una volta di più, che sommando due o tre pressappochismi si arriva a conclusioni sbagliate.
Allora. Per prima cosa, come ho già scritto, dovremmo dire “musulmani” e non “islamici”, a meno che non vogliamo indicare dei musulmani che usano strumentalmente la religione islamica per altri fini. Ma va bene così, lasciamo perdere. Non voglio mettermi a fare le pulci a Sartori.
L’esordio dell’articolo riguarda la nuova proposta di legge Sarubbi-Granata (testo) che verrà discussa in parlamento. La discussione nell’aula parlamentare è vicina, quindi è bene affrontare la questione.
Per Sartori è xenofobo – la Lega – “chi non gradisce lo straniero” e xenofilo chi lo gradisce – la Chiesa e la Sinistra. Fra gli xenofili la Chiesa è accogliente “per natura” mentre la Sinistra è accogliente per political correctness. La sua intenzione è di discutere dell’”integrabilità degli islamici”, quindi di questioni culturali, e non di integrabilità di “gialli, neri e rossi”, cioè di razze.
In questo quadro Sartori esclude la disamina del Corano per passare a osservare con pragmaticità “l’esperienza” storica dal 630 d.C. (chissà perché non dal 622) a oggi. E arriva alla conclusione che, ahimé, da allora non si è mai assistito ad alcuna “integrazione degli islamici” né, comunque, a una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politi co), in società non islami che.
E qui già non capisco. Di cosa parla Sartori? La questione dell’integrazione si pone unicamente nel mondo contemporaneo, con l’immigrazione in occidente, e ancora di più in tempi di globalizzazione. Nessun processo di integrazione, di regola, è mai stato posto in atto altrove. O mi è sfuggito qualcosa?
A Sartori risulta che i transfughi del Vecchio Continente si siano integrati con i nativi americani? O che i Portoghesi, gli Olandesi, i Francesi o gli Inglesi si siano integrati con le popolazioni che colonizzarono?
Non possiamo parlare di integrazione in prospettiva storica, se non facendo grossi distinguo con la situazione contemporanea. E’ un fatto del tutto nuovo. Oppure vogliamo cadere, di nuovo, nella trappola della fine della storia?
Ma andiamo avanti, dando per buono che processi di integrazione storici siano paragonabili a quelli che vediamo oggi:
Il caso esemplare [di non integrazione n.d.r.] è l’In dia, dove le armate di Al lah si affacciarono agli ini zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro no l’intero Paese.
Falso. I musulmani arrivano nel subcontinente indiano, e più precisamente nel Sind (l’odierno Pakistan sudorientale) nel 711 d.C., cioè ottocento anni prima dei Moghul e neanche un secolo dopo la nascita dell’islam. Che il Sind oggi sia una provincia del Pakistan poco importa se consideriamo che Pakistan e India così come li conosciamo sono una creazione recentissima (15 agosto 1947).
Dal 711 in poi i musulmani affluirono costantemente nel subcontinente indiano sia per terra che per mare, sia con invasioni militari (per terra) che attraverso reti commerciali (principalmente per mare).
Specialmente nel sud, sulle coste occidentali, l’afflusso fu così “poroso” che, senza esservi alcun “evento” storico rilevante (una guerra, uno scontro militare, un’ambasceria) nel X secolo troviamo – soprattutto nelle città – comunità musulmane autoctone, ovvero nate in loco e parlanti la lingua del luogo perfettamente integrate nel sistema indiano delle caste (talvolta a livelli piuttosto alti, ad esempio nel Kerala alcuni gruppi di musulmani erano tradizionalmente commercianti di cavalli). Ancora oggi diverse categorie di musulmani indiani ne fanno parte.
L’integrazione dei musulmani in India è profondissima, al punto che in alcuni casi gli storici si trovano in difficoltà nello stabilire se determinate confraternite mistiche siano state o meno musulmane.
Gli studiosi di islam che affrontano l’India sanno bene tutto questo. Da decine e decine di anni.
Come hai fatto, Sartori, a ignorarli?
Proseguiamo.
Si avver ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa ciosi, pacifici; e la maggio ranza è indù, e cioè poli teista capace di accoglie re nel suo pantheon di di vinità persino un Mao metto.
Il buddismo in India è estinto da circa 700 anni. Buddha era induista. Così come Cristo era ebreo.
Diciamo che il buddismo in India ha rappresentato una importante parentesi, importante più o meno quanto l’islam.
Riguardo alla “paciosità” del buddismo invito Sartori a leggere un po’ di storia dell’India: siamo uomini, le nostre religioni sono da sempre anche strumento di potere e/o sua espressione.
Ma ecco che ci avviamo al termine dell’analisi di Sartori:
Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finisse ro in un mare di sangue.
Non parlo di paternalismo, Sartori, solo perché non voglio metterti a disagio, ma dire che gli inglesi dovettero inventare il Pakistan è davvero orribile.
Episodi di intolleranza religiosa (su una base di convivenza pacifica e interattiva) nella storia del subcontinente indiano, che vi siano stati coinvolti i musulmani o meno, ci sono sempre stati. Fra le vittime, ad esempio, ci sono i buddisti, ma per mano degli “inclusivi indù” (ti invito a vedere ciò che fanno oggi gli estremisti indù sia ai cristiani che ai musulmani). Così come splendidi episodi di fusione, ma lasciamo perdere…
In specifico, la nascita di India, Pakistan e Bangladesh è dovuta al solito divide et impera degli inglesi (che fuggirono dall’India, non l’abbandonarono) i quali – forse in buona fede – fin dall’inizio del ‘900 avevano promosso un modello costituzionale basato sull’appartenenza religiosa che generò – come era prevedibile – uno scontro di interessi insanabile sull’asse musulmani-indù.
Ghandi e Badhshah Khan
Per chiudere questa parte della riflessione osservo, affinché Sartori ci ragioni su, che se parliamo dell’India e dell’integrazione in India dovremmo parlare per prima cosa di chi sono gli induisti, non dei musulmani (vi invito, fra l’altro, a leggere Quando arrivano le cavallette di Arundhati Roy).
Ma andiamo avanti, perché Sartori continua così:
Conosco, s’intende, an che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur chia. Tutti casi che rivela no un ritorno a una mag giore islamizzazione, e non (come si sperava al meno per la Turchia) l’av vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.
Allora. In Indonesia, come in altre aree dell’Oceano Indiano, l’islam si è perfettamente integrato, sempre per vie commerciali, con ciò che ha trovato in loco. Che Sartori si vada a leggere i miti di fondazione dell’islam indonesiano, e rifletta un po’ su di essi aiutato dagli scritti di Alessandro Bausani (anch’egli, fra l’altro, scriveva talvolta sul Corriere). In seguito, diviene l’unico polo di aggregazione anti-coloniale (ne ho scritto qui). Possiamo interrogarci su questo processo, ma non è legittimo, a mio avviso, collegare ciò che succede oggi in Indonesia (recrudescenze fondamentaliste in un mondo globalizzato) con l’Indonesia storica (un esempio di integrazione in epoca pre-industriale).
Riguardo alla Turchia non so se Sartori vi sia mai stato. Io, andandovi più volte, e in periodi diversi, ho visto uno stato laico nella cui società si agitano inquietudini di vario genere, anche a causa di una certa mancanza di democrazia e in presenza di eventi mondiali rilevanti (al-Qaida non nasce in Turchia) e una geopolitica delicatissima (un paese della NATO che fino a ieri ha dato il proprio spazio aereo a Israele). Nulla a che vedere con l’India e con l’Indonesia.
Insomma: questi 3 esempi sono troppo eterogenei per essere messi insieme in un quadro in cui si vuole dimostrare la non integrabilità dell’islam. Sartori, pur dichiarando di conoscere, non conosce un bel niente.
Il finale è quasi fallaciano. Per commentarlo dovrei scrivere pagine e pagine, ma in questo momento non ne ho proprio voglia, quindi lo cito:
Veniamo all’Europa. In ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro vano con una terza generazione di giovani islami ci più infervorati e incatti viti che mai. Il fatto sor prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac casano senza problemi nell’Occidente pur mante nendo le loro rispettive identità culturali e religio se. Ma — ecco la differen za — l’Islam non è una re ligione domestica; è inve ce un invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri svegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzandolo» è un rischio da gi ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia re.
Che vi devo dire? Se anche Sartori ragiona così, il margine di manovra è microscopico, quasi nullo.
Altro che 30 secondi.
Certo, rimane un po’ di rabbia: quando si parla di cose di casa nostra tutti stanno attenti a quello che dicono.
Si fanno le pulci a concetti, teorie, citazioni.
Senza se, senza ma.
Varcato il Bosforo, invece, si può dire qualsiasi cosa.
Anche che i buddisti stanno in India.
Anche che gli indù sono tollerantissimi.
Tutti diventano giganteschi sprovveduti ma nessuno se ne cura.
Ciao, Sartori. Alla prossima uscita, ti prego, fammi un fischio, così parliamo un po’.