Sto cercando risposte a queta domanda, (solo) apparentemente semplice. A questa domanda se ne collega una seconda: a cosa serve la scuola? Serve a formare i futuri cittadini o semplicemente futuri lavoratori?
Se un ragazzo, nato in Italia o arrivato qui da piccolo, si sente chiamato "studente straniero", "ragazzo straniero", "studente immigrato", fin da quando è piccolo, e non c'è nessuno (o quasi) a a contraddire queste definizioni (che lo "definiscono"), neanche i genitori che solitamente sottolineano l'estraneità del ragazzo...quando questo ragazzo/ragazza sarà grande chi/cosa/come si sentirà? Quanta confusione avrà sulla propria "identità"?
Se la scuola serve a formare cittadini, che senso ha chiamare bambini e ragazzi come "studenti stranieri", connotato che non li avvicina ma li allontana dal sentirsi cittadini italiani?
A scuola i bambini brutti vengono chiamati in modo diverso da quelli belli? Quelli alti da quelli bassi? Quelli magri da quelli grassi? Non sono tutti ragazzi? Non sono loro il futuro di un paese? Loro che prenderanno le decisioni, formeranno la società civile, esprimeranno le loro preferenze per partiti che li rappresenteranno nelle sedi legislative ed esecutive, per fondare normativamente la società di domani. Se anche i figli di immigrati saranno futuri cittadini (e lo saranno meglio e più a fondo dei loro genitori), ha senso rinchiuderli (o cercare di rinchiuderli) indefinitivamente nelle categorie escludenti degli "stranieri, immigrati, extracomunitari"?
Se la scuola può fare a meno delle categorie sopracitate, dei belli/brutti alti/bassi, non può fare a meno anche di quest'ultime?
Secondo me insegnati e professori dovrebbero porsi queste domande. Fanno un lavoro delicato e inconsapevolmente posso fare un grande danno anche soltanto concedendosi semplificazioni verbali.
Penso che la rete G2 Seconde Generazioni sia nata da domande come queste. Se dopo 4 anni ancora ci facciamo queste domande, significa che da allora niente è cambiato in questo paese. Anzi...
_________________ Essere umano in divenire
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