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MessaggioInviato: 30 gen 2013, 12:06 
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"L'altra faccia delle seconde generazioni"
Un articolo di Marzo Omizzolo, rende più evidente la discriminazione insita nella mancata riforma della Legge 91/1992 per l'acquisizione della cittadinanza italiana.

Cita:
Ci sono ragazzi, nati e cresciuti in Italia, che si trovano a marcire nei campi, esposti alle stesse dinamiche di sfruttamento subite dai loro genitori. Pensando a loro la battaglia per una nuova legge sulla cittadinanza acquista ancora più senso.

Deep ha 21 anni e un diploma di tornitore specializzato conseguito a pieni voti, ma lavora come bracciante a Fondi, città del sud pontino. Voleva lavorare in fabbrica come tornitore. Ora raccoglie ortaggi dalla mattina alla sera. Guadagna un terzo di quanto gli spetti e di quanto il padrone invece riconosce ai suoi colleghi italiani. Pensa di partire per l’India, il Paese dei suoi genitori, o di cambiare città. Non vuole consumarsi per tutta la vita raccogliendo zucchine. Ma i suoi sogni, le sue esigenze, le legittime aspettative per il momento sono messe in stand-by.

Ravinder Singh ha 15 anni, vorrebbe studiare, prendere un diploma come gli italiani. La famiglia invece gli ha già prenotato per l’anno prossimo un posto di lavoro come bracciante nella cooperativa dove lavora già il fratello. La sua famiglia ha bisogno di soldi. Lo studio è un lusso che non gli è concesso. Il fratello lavora per 3 euro l’ora mentre il padre per 4. Servono soldi perché adesso c’è una sorellina in arrivo e lo stipendio non basta mai. A scuola ha voti alti, la sua professoressa di italiano lo incoraggia a studiare, a proseguire. La vita reale lo porta ancora lì, in quei campi odiati ma unica fonte di sostentamento per migliaia di sikh pontini.

Harbhajan ha 23 anni e ricorda sempre che il suo obiettivo da ragazzo era di conseguire il diploma di ragioniere e di aprire un negozio. Oggi lavora per 3 euro l’ora nello stesso campo agricolo dove è impiegato il padre. Raccoglie ortaggi e, come il padre, a volte prende lo stipendio, a volte no. Harbhajan lo dice sorridendo, ma nutre una profonda amarezza che spesso lo porta a pensare che forse per lui sarebbe meglio tornare in India, dove godrebbe oggi di maggiori opportunità occupazionali, dove la famiglia possiede ancora qualche ettaro di terra.

Siamo nell’agropontino, zona agricola caratterizzata da una forte presenza di indiani sikh, generalmente impiegati in nero e molto sfruttati. I figli di questi immigrati, cresciuti e spesso anche nati in Italia, si sono affacciati sul futuro ma subito hanno dovuto ritirarsi. Per loro l’unica possibilità è seguire l’esperienza dei genitori. O andar via.

Eppure, nel corso degli anni la comunità sikh ha saputo organizzarsi, crescere, sviluppare aspettative. I figli dei migranti sikh, cittadini non riconosciuti dallo stato ma italiani de facto, hanno frequentato la scuola, spesso con ottimi risultati e con tassi di dispersione bassissimi. Auspicano di completare la loro formazione scolastica, magari di andare all’università, di avere un buon lavoro come i loro amici italiani, di superare le fatiche fisiche, le umiliazioni e discriminazioni che hanno vissuto i loro genitori, in particolare i padri, costretti a condizioni di lavoro pesantissime.

Hardeep, che ha 14 anni, ripete di voler studiare, andare all’università, di diventare medico e curare tutti i suoi connazionali sikh che vede tornare a casa in bicicletta spesso malconci, feriti da incidenti subìti durante la giornata di lavoro, spesso tenuti nascosti e comunque negati, e dalle violenze che a volte subiscono da delinquenti italiani. Anche suo padre, mentre lavorava, è stato colpito dal trattore condotto dal padrone italiano. Poiché non aveva un regolare contratto di lavoro, è stato caricato in auto e depositto nei pressi di un pronto soccorso. Oggi quest’uomo ha una gamba fuori uso che lo ha reso parzialmente inabile al lavoro, una famiglia da mantenere, nessun aiuto statale e un figlio che vuole diventare medico. Il padrone lavora tranquillo nei campi, in sella al trattore. Hanis, una ragazza di 17 anni, nata in Italia da genitori indiani, vorrebbe lavorare come segretaria in una piccola azienda locale, dietro una scrivania come la sua migliore amica, figlia del titolare di una ditta di import/export. Hanis studia molto, ha ottimi risultati scolastici, ama le lingue, oltre al punjabi e all’italiano, parla inglese e inizia a studiare anche il francese. D’altronde sa bene che se vuole quel posto di lavoro, deve studiare, imparare, capire, forse più della sua amica italiana.

Ma cosa succede in realtà quando i giovani sikh in provincia di Latina terminano il loro percorso scolastico? La maggior parte di loro non realizza affatto le aspettative. Quasi tutti perdono la possibilità di emanciparsi e ricadono nel ben noto vortice di segregazione, sfruttamento e discriminazione. Sono pochi quelli che riescono a realizzarsi. Tutti gli altri, come Deep, Ravinder, Harbhajan si ritrovano a lavorare in nero nei campi, accanto ai genitori. Ma un paese civile dovrebbe essere caratterizzato anche da questo: dalla capacità di dare opportunità reali ai suoi abitanti, a cominciare dal riconoscimento dei diritti fondamentali. Di fronte a Deep, Ravinder Harbhajan e ad Hardeep e Hanis e a tutti quelli come loro, la battaglia per una nuova legge sulla cittadinanza acquista ancora più senso.

Il progressivo invecchiamento della popolazione è uno dei tratti più caratteristici dell’attuale scenario demografico italiano. Un dato che se inserito nel ragionamento sui migranti presenti nel nostro Paese e sulle dinamiche che caratterizzano la loro organizzazione, risulta fecondo di interessanti considerazioni. Questo genere di riflessione è utile anche per capire le responsabilità del nostro Paese nel sostenere, anche indirettamente, sistemi di sfruttamento e discriminazione nei quali vengono ricondotte anche le nuove generazioni di migranti, nonostante la loro formazione e le relative legittime aspettative di crescita sociale ed economica.

Ricordiamo che in Italia, secondo i dati Istat più aggiornati, la percentuale di migranti residenti è pari a circa il 7% della popolazione, mentre la relativa percentuale cresce a poco oltre il 10% se si passa ai minori migranti residenti. Ciò significa che circa un minore su dieci è figlio di genitori migranti. Si tratta delle cosiddette 2G, termine ambiguo, sotto il quale si nasconde una galassia di distinzioni possibili e legittime, processi, percorsi esistenziali e aspettative diverse. La crescente importanza delle seconde generazioni emerge chiaramente anche dai dati scolastici: tra gli alunni stranieri iscritti all’anno scolastico 2010/11, più di 4 su 10 (42,2%) sono nati in Italia. La lingua, spesso invocata retoricamente come ostacolo all’inclusione tra popolazione autoctona e alloctona, non rappresenta certo per loro un ostacolo. Lo stesso varrebbe anche per i minori migranti ricongiunti, se si incentivassero le misure di sostegno per l’apprendimento dell’italiano.

Le seconde generazioni rappresentano un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione delle società riceventi che merita analisi continue e sempre più attente. I figli dei migranti, infatti, sono la cartina di tornasole che consente di comprendere il grado di inclusione, il livello delle pari opportunità e il dialogo interculturale tra comunità migranti e autoctone. Essi seguono un percorso di crescita e di socializzazione, linguistico e di acculturazione che avviene entro gli spazi educativi del nostro Paese, eppure non esiste alcun automatismo o percorso agevolato, e perciò incentivante, che garantisca a chi nasce in Italia da entrambi i genitori stranieri l’acquisizione della cittadinanza italiana, con un’evidente mancanza di rispondenza tra lo status giuridico e l’identità personale e sociale del minore costruita nei percorsi formativi e di formazione sociale.

Le problematiche rispetto alle seconde generazioni emergono con forza soprattutto quando si mette il naso nei territori (come abbiamo fatto noi nell’agropontino). Si presentano, con ripetuta persistenza, situazioni in cui il minore, pure socializzato, perfetto conoscitore della lingua italiana, precipita in condizioni di svantaggio sociale e discriminazione che ne possono determinare l’emarginazione. E questo evidentemente è legato anche alla regola ancora dominante in Italia dello ius soli, che riconosce la cittadinanza italiana al giovane migrante solo al compimento del diciottesimo anno di età.
La mancanza di parità effettiva, anche in termini di opportunità sociali ed economiche, tra cittadini italiani e non cittadini, soprattutto per i minori, genera fenomeni diffusi di discriminazione e spesso il ciclico ripresentarsi di situazioni di sfruttamento già conosciute, che persistono anche in seguito al compimento del diciottesimo anno di età e che producono conseguenze gravi sulle aspettative di vita dei giovani migranti.

Ciò vale soprattutto per le comunità migranti di recente formazione, che dispongono di reti relazionali meno sviluppate e di progetti e interventi pubblici inesistenti. Tutto questo genera nel migrante minore che ambisce ad entrare da protagonista nella società di accoglienza, al pari del coetaneo italiano, una profonda disillusione, disincentivo alla partecipazione alla vita sociale del Paese, segregazione e mortificazione dei propri progetti di vita. La conseguenza è la ricaduta nel circuito di sfruttamento e discriminazione che caratterizzava i genitori.

Marco Omizzolo


Fonte: http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2013/01/laltra-faccia-dei-g2/


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