Cita:
Qualche anno fa, mentre ritornavo in Inghilterra dopo un breve viaggio all'estero (all'epoca ero direttore del Trinity College di Cambridge), il funzionario dell'immigrazione all'aeroporto di Heathrow, dopo aver accuratamente esaminato il mio passaporto indiano, mi pose un quesito filosofico di una certa complessità. Osservando il mio indirizzo sul formulario per l'ufficio immigrazione (residenza del direttore, Trinity College, Cambridge), mi chiese se il direttore, di cui evidentemente ero ospite, fosse un mio caro amico. Dovetti soffermarmi a pensare, perché non ero del tutto sicuro di poter affermare di essere amico di me stesso. Dopo aver riflettuto, arrivai alla conclusione che la risposta doveva essere sì, perché mi capita spesso di trattare me stesso in modo discretamente amichevole, e quando dico qualche sciocchezza capisco immediatamente che, con amici come me, non ho bisogno di nemici.
Dal momento che tutte queste elucubrazioni avevano richiesto del tempo, il funzionario dell'immigrazione volle sapere precisamente per quale motivo stessi esitando, e più nello specifico, se la mia permanenza in Gran Bretagna fosse viziata da qualche irregolarità.
La questione pratica alla fine si risolse, ma la conversazione servì a ricordarmi, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l'identità può essere una faccenda complicata. Autoconvincersi che un oggetto è identico a se stesso non richiede ovviamente grande fatica. Ludwig Wittgenstein, il grande filosofo fece notare una volta che <<non s'è esempio migliore di proposizione inutile>> del dire che qualcosa è identico a se stesso, ma proseguiva affermando che la suddetta proposizione, per quanto completamente inutile, è tuttavia <<collegata>> a un certo ruolo svolto dall'immaginazione.
Se spostiamo la nostra attenzione dal concetto di essere identici a se stessi a quello di condividere un'identità con altri membri di un determinato gruppo (che è la forma che assume molto spesso l'idea di identità sociale), la complessità aumenta. Anzi, molte questioni politiche e sociali contemporanee ruotano intorno a rivendicazioni conflittuali di identità disparate che coinvolgono gruppi diversi, poiché la concezione dell'identità influenza, sotto molti e diversi aspetti, il nostro pensiero e le nostre azioni.
Gli eventi violenti e le atrocità degli ultimi anni hanno portato un periodo di terribile confusione e spaventosi conflitti. La politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose o culturali esistenti nel mondo. Il mondo, anzi, è visto sempre di più, quanto meno implicitamente, come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi. All'origine di questa idea sta la curiosa supposizione che l'unico modo per suddividere in categorie gli abitanti del pianeta sia sulla base di qualche sistema di ripartizione unico e sovrastante. La suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei <<solitarista>> all'identità umana, approccio che considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito in questo caso dalla civiltà o dalla religione, in contrapposizione con la rilevanza un tempo attribuita alla nazionalità o alla classe sociale).
L'approccio solitarista può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta. Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di essere può essere considerata l'unica identità o l'unica categoria di appartenenza della persona. L'inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull'importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico.
Un ruolo centrale nella vita di un essere umano, quindi, è occupato dalle responsabilità legate alle scelte razionali. Per contro, a promuovere la violenza è la coltivazione di un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica - spesso belligerante - che noi possederemmo e che apparentemente pretende molto da noi (spesso cose del genere più sgradevole). L'imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell'arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari.
Sfortunatamente, molti tentativi benintenzionati di mettere un freno a questa violenza sono spesso menomati dalla percezione di un un'assenza di possibilità di scelta riguardo alle nostre identità, e questo può rendere molto più difficile sconfiggere la violenza. Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di <<amicizia tra civiltà>> o di <<dialogo tra gruppi religiosi>, o di <<relazioni amichevoli tra comunità diverse>> (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che <<miniaturizza>> gli esseri umani.
E' la nostra comune appartenenza al genere umano ad essere messa gravemente in discussione ogni volta che le innumerevoli divisioni esistenti nel mondo vengono unificate in un sistema di classificazione spacciato per dominante, che suddivide le persone sulla base della religione, della comunità, della cultura, della nazione, della civiltà (trattando ognuno di questi criteri come unico criterio valido nel contesto di quel particolare approccio alla guerra e alla pace). Il mondo suddiviso secondo un unico criterio di ripartizione è molto più conflittuale dell'universo di categorie plurali e distinte che plasma il mondo in cui viviamo. Un'immagine del genere non contrasta soltanto con la buona vecchia convinzione che <<noi esseri umani siamo più o meno uguali>> (che di questi tempi viene ridicolizzata - non del tutto a sproposito - alla stregua di un'emerita stupidaggine), ma anche con l'idea meno dibattuta ma molto più plausibile, che siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara della pluralità dell'identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.
Non sono solo le cattive intenzioni a contribuire al caos e alle atrocità che vediamo intorno a noi, ma anche la confusione teorica. L'illusione del destino, in particolare quando è legata a determinate identità uniche o altro (con le relative, presunte implicazioni), alimenta la violenza, sia attraverso le omissioni che attraverso gli atti. Dobbiamo avere piena consapevolezza di possedere molte e distinte affiliazioni, e di poter interagire con ognuna di esse i molti e diversi modi (qualunque cosa dicano gli istigatori e i loro sovraeccitati avversari). Abbiamo il margine di manovra per prendere decisioni sulle nostre priorità.
Trascurare la pluralità delle nostre affiliazioni e le necessità di una scelta razionale rende più cupo il mondo in cui viviamo. Ci spinge nella direzione delle terrificanti prospettive dipinte da Matthew Arnold in Dover Beach:
And we are here as on a darkling plain
Swept with confused alarms of struggle and flight,
Where ignorant armies clash by Night.
Possiamo fare meglio di così.
Tratto da: Amartya Sen - Identità e violenza (prologo)
http://en.wikipedia.org/wiki/Amartya_Sen