Le ragazze e i ragazzi adottati, in particolare quelli provenienti dall'estero, sono inclusi nella categoria - tremenda parola - delle seconde generazioni.
Mi è capitato spesso di pensare quanto questo potessere corrispondere alla realtà. Mi sono sempre detta che probabilmente avrà sensazioni e sentimenti simili ai miei su identità e integrazione. Ho trovato nella
lettera che segue le similarità che immaginavo e ho riconosciuto una distanza incolmabile con il "paese di origine" che a tratti mi opprime e mi spaventa.
Cita:
Identità e appartenenza. (tra qualche anno)
Sono cambogiano, anzi no, sono italiano, come tanti figli adottati in adozione internazionale, ho tratti somatici molto differenti da quelli dei miei genitori. Ho tratti somatici differenti anche da quelli dei miei zii, dei nonni, dei cugini, dei miei compagni di scuola, dei miei amici e conoscenti.
Mi sono ormai arreso all'evidenza di vivere sapendo di essere diverso, costantemente diverso, ma sarei diverso anche vivendo in Cambogia, perché ormai non conosco la lingua, le abitudini, le tradizioni, i gesti, ecc. Sono un perfetto italiano in un involucro da cambogiano! Il mio amico filippino, figlio di immigrati, ha un aspetto molto simile a me, tanto che spesso scambiano anche me per un filippino, ma lui ha i genitori che gli assomigliano, in casa mangia dei piatti che ricordano la cucina filippina, i suoi genitori parlano spesso in filippino tra di loro e raccontano storie filippine, la loro casa è come un piccolissimo pezzetto di filippine trapiantato in Italia. Il mio amico si sente un po' filippino e un po' italiano. Io forse non mi sento ne italiano, ne cambogiano.
Io sono stato adottato quando avevo due anni, i miei genitori e mia sorella hanno fatto un lungo viaggio per accogliermi nella loro famiglia, io ero stato abbandonato dalla nascita ed ero sopravvissuto negli stenti e nella povertà. Senza l'adozione forse non sarei vivo, sicuramente non avrei goduto dell'amore e delle possibilità che mi hanno offerto. Non parlerò in questa sede delle domande irrisolte relative al mio abbandono e che vorrei porre alla persona che mi ha generato e che poi mi ha abbandonato. Ma ora mi chiedo: "chi sono?" La mia cambogianità sopravvive in me nel colore della pelle, nel taglio degli occhi, nel profilo un po' schiacciato del mio naso, nella mia statura, ma tutto il resto, il modo che ho di interagire con il mondo è da italiano, i gesti lo sono, non solo la lingua ma anche il modo di pronunciare i suoni della lingua è italiano, anzi lombardo, il modo di pensare, di agire e di reagire è italiano, probabilmente tutto il mio comportamento è diverso da come si comporta un mio coetaneo cambogiano di Cambogia.
Quando pian piano ho abbandonato i gesti abituali del mio mondo di provenienza per sostituirli con quelli attuali, ho imparato a parlare questa nuova lingua, ho cambiato le espressioni del viso, le posture, i modi di approccio alle persone e ho compiuto un percorso senza ritorno, potrò studiare e imparare perfettamente il cambogiano, potrò studiare gli usi, i costumi, la storia, la cultura, le espressioni, ecc. della Cambogia ma non saranno mai più mie come se le avessi ereditate crescendo.
Quando mi dicono che sono cambogiano, quando mi chiamavano 'piccolo khmer', facevano riferimento all'involucro, questo è naturale, contenuto e contenente generalmente coincidono. Ho pensato che potrebbe sentirsi come me anche un discendente di terza o quarta generazione di immigrati, quando il legame della famiglia con la terra d'origine è diventato molto labile (i dotti direbbero fantasmatico), ma non è così, perché sarebbe comunque un discendente e potrebbe sempre pensare di avere degli avi tangibili giunti qui in cerca di lavoro e di fortuna. Pur avendo perso i legami culturali avrebbe i genitori e i parenti presenti che sarebbero somaticamente come lui. Il fantasma cambogiano che è in me invece è solo in me e non nei miei parenti, mi consola che se avrò dei figli lo condividerò con loro come condividerò il cognome italianissimo che a volte spiazza gli interlocutori, e che mi diverte non poco.
Per fortuna non sono stato vittima di comportamenti razzisti particolarmente gravi, solo qualche idiota (le loro mamme sono sempre incinte come cita il proverbio) che ha tentato di prendermi in giro o di isolarmi, di emarginarmi. Ci vuole ben altro per crearmi dei problemi. Famiglia e cognome italiano in questi casi è molto importante, direi che per fortuna mia, ma non per gli immigrati, fa la differenza in molti aspetti della vita di tutti i giorni. Un certo fastidio soprattutto all'inizio è stata la fatica di dover spesso dimostrare che non ero straniero Perché appena uscivo dall'ambito familiare e dei conoscenti, trovavo subito qualcuno che si stupiva della mia capacità di esprimermi bene in italiano, oppure trovavo qualcuno che mi trattava da straniero. Poi ho fatto l'abitudine a queste piccole noie e, anzi, ho cominciato a divertirmi dello stupore provocato. Prima era una seccatura, ora è quasi una risorsa con cui convivo bene.
Rimane sempre quella domanda iniziale: "chi sono?", anzi meglio "cosa sono?". Viene risvegliata sempre dall’automatismo “tratti somatici = appartenenza etnica” che vorrebbe attribuirmi un’identità etnica che è assente, che vorrebbe affibbiarmi un’etichetta che in realtà è vuota, che è solo un involucro. Tutti gli insegnanti che ho incontrato prima o poi mi hanno parlato della grandezza dell'impero khmer, della cultura khmer, delle vicissitudini politiche cambogiane degli anni 70. Io apprezzo molto il fatto che abbiano studiato argomenti che altrimenti non avrebbero mai approfondito, e mi sembra anche indelicato dir loro che io con quella cultura e quella storia ho poco a che fare, ma è la verità: cosa può significare per me? Mi può interessare di più la storia dell'impero romano o la storia dell'impero khmer? Forse nessuna delle due.
Quando a scuola mi chiamano straniero e qualche idiota aggiunge di tornarmene a casa mia, cosa posso rispondere? straniero non mi sento proprio, anche se non sono nato qui, ci vivo da così tanto tempo che non mi ricordo altro luogo, e quindi non posso tornare in nessun luogo che non sia questo. Immagino che se andassi (e uso il verbo 'andare' al posto del verbo 'tornare' volutamente) in Cambogia mi scoprirei molto simile alle persone che si incontrano per strada ma sarei anche molto diverso da loro, non avrei la stessa lingua, non avrei gli stessi gesti, essendo ormai un occidentale, anche se mascherato da indocinese. Mi sento italiano in tutto tranne che nei tratti somatici.
I miei genitori (adottivi) mi dicono che la Cambogia è un paese bello, che i cambogiani sono accoglienti, sorridenti, gentili e che sono un popolo di cui posso andare fiero, che non devo vergognarmi delle mie origini, anzi che provengo da un popolo con una storia importante, che ha avuto recenti vicissitudini drammatiche che lo hanno reso povero ma mai domo, e che anche per questo devo esserne orgoglioso... ma come faccio a essere fiero di qualcosa che non conosco e che in fondo non mi appartiene. Le mie origini sono perse per sempre, rimane solo l'indirizzo dell'istituto dove sono stato per una manciata di mesi. Altre notizie certe della mia provenienza non ce ne sono, c'è il caldo, la polvere o la pioggia, le palme e le acacie, i profumi dei fiori e delle spezie che ho conosciuto quando ero molto piccolo e di cui non ho ricordo.
Fortunatamente il mio carattere è sufficientemente positivo da accettare questi aspetti potenzialmente traumatici dell'esperienza adottiva. Non sono solo, i miei genitori e mia sorella (lei è nata in Italia) mi vogliono bene, non sono solo, conosco altri ragazzi nati in Cambogia e adottati in Italia, non sono solo, ho tanti amici che sono affascinati dai miei tratti somatici esotici. Siamo tutti cittadini del mondo e il resto conta poco.
Tratto da "Intervista a mio figlio adottato" by Gabriele
Grazie a Flora che ci ha segnalato questo articolo.