CLASSI PONTE? UN'INVENZIONE ITALIANA di Maurizio Ambrosini 28.10.2008
Nei paesi avanzati non ci sono precedenti per la scelta di classi separate per i bambini immigrati. Ci sono invece molte esperienze di didattica speciale, volta al rafforzamento delle competenze linguistiche. Nel nostro paese la percezione di un'emergenza educativa è drammatizzata dallo smantellamento delle risorse per fronteggiarla. Il fatto stesso che alcune scuole abbiano investito di più nella didattica interculturale non di rado diventa un pretesto per convogliare solo verso queste gli alunni immigrati. Problemi di merito e metodo della proposta.
I minori di origine immigrata oggi presenti in Italia sono più di 760mila, dei quali però 450mila sono nati nel nostro paese, e in varie altre nazioni godrebbero dalla nascita della cittadinanza. Tra i minori stranieri scolarizzati, le proporzioni si invertono: circa i due terzi sono nati all’estero, anche se nel tempo le cose cambieranno per la naturale evoluzione demografica della popolazione immigrata. Il fenomeno in ogni caso è in rapida crescita e presenta marcate concentrazioni territoriali. Le regioni con le maggiori concentrazioni di istituzioni scolastiche che superano il 20 per cento di alunni “stranieri” sono Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Nel Sud solo in Sicilia si individuano alcune scuole in condizioni analoghe. La Lombardia è la regione d’Italia con il più alto numero di istituti che hanno almeno il 20 per cento di iscritti di cittadinanza non italiana, sono più di duecento. Nell’anno scolastico 2007-08, le scuole della regione con una percentuale di alunni non italiani pari o superiore al 25 per cento sono state il 9,3 per cento del totale. (1)
SOLUZIONI IN ITALIA E ALL’ESTERO
A questa rapida e visibile trasformazione delle basi demografiche e sociali della popolazione scolastica, vuole fornire una risposta la mozione sulle cosiddette classi-ponte per i bambini immigrati, proposta dalla Lega Nord, condivisa dal governo e approvata dalla Camera dei deputati. Un progetto che , a quanto sembra, incontra un vasto consenso nell’opinione pubblica nazionale. Benché non ancora chiarissima nelle sue modalità applicative, la mozione è un atto di indirizzo politico, non una proposta di legge dettagliata, l’idea è di costituire classi distinte per gli alunni che non dimostrino, a un apposito test d’ingresso, una sufficiente conoscenza della lingua italiana. Lì rimarranno finché non riescano, a una successiva verifica, a superare la prova. Molti commentatori hanno osservato che la mozione individua un problema reale, sentito tra le famiglie italiane che hanno figli nella scuola primaria. Si stanno formando, si dice, classi in cui la numerosità dei bambini immigrati e la loro inadeguata conoscenza della nostra lingua frena l’apprendimento di tutti, provocando la fuga degli italiani. O se non possono andarsene, un evidente rancore. I sostenitori del provvedimento, tuttavia, non si sono rifatti a nessuna esperienza straniera. Non si conoscono infatti, in epoca recente, precedenti nei paesi avanzati in cui si sia scelta la strada di classi separate per i bambini immigrati, anche se si danno molte esperienze di didattica speciale, volta al rafforzamento delle competenze linguistiche. Per esempio, in Australia o nel Regno Unito, i bambini sono inseriti nelle classi normali, ma inizialmente ricevono una formazione intensiva in lingua inglese, in gruppi separati e con insegnanti specializzati, mentre stanno in aula e lavorano con i compagni per materie come l’educazione fisica, l’educazione artistica, le attività manuali. Dopo qualche settimana, cominciano a diminuire le ore “speciali” e aumentano quelle “normali”, fino a giungere a una completa integrazione. Si tratta quindi di una soluzione diversa da quella delle classi “ponte” della mozione approvata dalla Camera, che istituisce contesti di apprendimento differenziati per gli alunni immigrati privi di adeguate competenze linguistiche. L’approccio francese tiene conto della concentrazione urbana dei bambini immigrati, così come di altre componenti sociali svantaggiate, aumentando il personale educativo e le risorse a disposizione delle scuole dei cosiddetti “quartieri sensibili”. All’investimento educativo si aggiunge un’attenzione più complessiva alla riqualificazione e allo sviluppo dei quartieri difficili, con la destinazione di risorse per l’animazione economica, sociale e culturale dei territori, in cui le scuole svolgono una funzione importante. Gli unici esempi noti di classi separate sono quelli istituiti in passato da alcuni länder tedeschi: in quei casi però l’insegnamento si teneva nella lingua del paese d’origine dei genitori, principalmente turchi, e aveva l’obiettivo di favorire il ritorno in patria. Un obiettivo che si è rivelato illusorio, producendo disadattamento e mancata integrazione, con i costi sociali conseguenti.
PROBLEMI DI MERITO E METODO
Nel caso italiano, non siamo all’anno zero. In molte scuole, anche se su basi locali e volontaristiche, sono stati sviluppati laboratori di italiano come lingua seconda, sono stati introdotti facilitatori e mediatori, sono stati distaccati insegnanti con funzioni di sostegno dell’apprendimento. Il problema è semmai che già sotto la gestione di Letizia Moratti, il ministero aveva tagliato le risorse per queste attività. Il lieve incremento successivo è rimasto ben lontano dal compensare l’aumento della popolazione scolastica di origine immigrata. (2) La percezione di un’emergenza educativa è drammatizzata dallo smantellamento delle risorse per fronteggiarla. Le vistose concentrazioni in certe scuole e classi, inoltre, non sono un dato per così dire “naturale”. Spesso derivano da scelte organizzative che addensano in alcuni plessi e classi gli alunni di origine straniera. Il fatto stesso che alcune scuole abbiano investito maggiormente nella didattica interculturale non di rado diventa un pretesto per convogliare verso di esse gli alunni immigrati, “sgravando” le altre. Il volontarismo e l’attivazione locale hanno come contraltare il disimpegno e la resistenza passiva di altre istituzioni scolastiche. Un impegno per l’integrazione scolastica dovrebbe cominciare con il superamento di queste segregazioni di fatto, non giustificate da ragioni di concentrazione urbana. Vengono poi alcuni problemi di merito. Il primo, già espresso da Giovanna Zincone su La Stampa, riguarda i destinatari della proposta del test di ingresso: tutti gli alunni di nazionalità straniera, oppure solo quelli nati all’estero? E in questo secondo caso, tutti, compresi quelli giunti nei primissimi anni di vita, o solo a partire da una certa età? Che dire poi dei bambini adottati all’estero? E dei figli di emigranti italiani di ritorno? E dei figli di stranieri provenienti da paesi sviluppati? E dei figli di coppie miste? La proposta appare essenzialmente una dichiarazione di intenti che vuole marcare un confine, senza preoccuparsi di introdurre specificazioni. Un altro problema riguarda le modalità di uscita dalle classi-ponte: che ne sarà degli alunni che non riusciranno a raggiungere il livello di competenza linguistica richiesto? Resteranno nelle classi-ponte? Fino a quando? Non si rischia di reintrodurre surrettiziamente le classi differenziali abolite ormai da tanti anni, perché ghettizzanti? C’è infine una questione relativa ai luoghi e alle modalità dell’apprendimento linguistico. La lingua si impara in classe, ma anche negli intervalli, in cortile e in mensa, giocando, chiacchierando, passando del tempo insieme. E poi invitando ed essendo invitati a casa dei compagni nel tempo libero. L’apprendimento in contesti informali non è meno importante di quello formale. E in più produce integrazione reciproca. Si può sostenere che le classi ponte non vietano di entrare in rapporto con i bambini italiani, ma resta certo che non producono un ambiente favorevole agli scambi quotidiani e all’instaurazione di rapporti di amicizia. Non è forse un caso che nessun esperto noto di scuola e di pedagogia interculturale si sia espresso a favore del provvedimento. D’altronde, immaginare che la forza politica che ha presentato la mozione, con il suo curriculum, abbia davvero a cuore l’integrazione dei minori immigrati, appare vagamente surreale. Ma se pensiamo che gli obiettivi siano altri, anzitutto di raccolta del consenso, allora si comprendono meglio le ragioni della proposta e del suo successo.
(1)I dati sono Usr Lombardia-Miur. Si veda M. Santerini, School mix e distribuzione degli alunni immigrati nelle scuole italiane, in pubblicazione su “Mondi migranti”. (2) Un conteggio non recentissimo effettuato in Lombardia dava un rapporto di un insegnante all’incirca ogni 400 alunni di origine immigrata. Oggi la situazione è molto probabilmente peggiore, in termini di rapporto insegnanti dedicati/alunni immigrati.
Fonte: Lavoce.info
Maurizio Ambrosini è professore associato presso l’Università di Genova, dove insegna sociologia generale alla Facoltà di Scienze della Formazione. I suoi principali campi di interesse scientifico sono le immigrazioni internazionali, l’economia sociale, il volontariato e la formazione professionale.
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