Pare che il pm non abbia accettato l'aggravante del razzismo.
Intanto ecco dal corriere della sera di oggi oggi:
Cita:
Cronache Tifoso del Milan, aveva studiato alle scuole di Don Milani
Abdul e quell'offesa che non sopportava
La sorella: sono italiana, ma oggi per la prima volta mi sento nera. Gli amici: non mandava giù gli insulti razzisti
Una cosa sola non sopportava, sentirsi dire «negro». È una cosa che capita, nelle strade di Milano. «E anche spesso», raccontano gli amici di Abdul Guiebre, 19 anni, ammazzato la notte scorsa con una sprangata alla testa. «Lui rispondeva, si arrabbiava». Cade una pioggia leggera davanti all’ospedale Fatebenefratelli. Cielo scuro. Ragazzi che si abbracciano. Uno di loro, Prince, spiega: «Io lascio perdere e me ne vado, mi sento superiore alle offese. Gli insulti razzisti lui invece non riusciva a mandarli giù. Era fatto così». In compagnia lo chiamavano Abba, aveva 19 anni, corpo atletico, un tribale tatuato sulla spalla destra, brillantini luccicanti alle orecchie. L'ultima volta che i suoi amici l'hanno visto vivo era a terra, era inciampato mentre scappava, «uno di quei due gli è arrivato addosso e gli ha tirato una bastonata in faccia con tutta la forza». C'era anche la sua ragazza. Abdul è rimasto cosciente prima che arrivasse l'ambulanza. Gli amici gli hanno preso le mani, «aveva le braccia già rigide».
Tifava Milan e giocava a pallone con gli amici, Abba. Appesi alle pareti della sua camera, poster di giocatori di basket e fotografie di Ronaldinho. La passione per i vestiti firmati. Calvin Klein, Dolce e Gabbana. La pelle nera lo legava alla storia della sua famiglia: i genitori immigrati dal Burkina Faso vent'anni fa, ormai cittadini italiani. Padre operaio, sempre per la stessa ditta. Ieri hanno pregato a lungo, fino a notte, nella casa all'ottavo piano di un palazzo popolare a Cernusco sul Naviglio, paesone a nord di Milano. Sanno che la storia della famiglia è cambiata, non solo per la morte del ragazzo. Dicono che il razzismo, nella loro vita, fino a sabato sera è stato poco più di sottofondo puzzolente e fastidioso: «Spesso — racconta la sorella, Adiaratou— quando i ragazzi giocano a pallone volano insulti sul colore della pelle, a volte anche sputi. In qualche modo però ci eravamo abituati». Sensazioni pesanti, ma accettate. Come un male naturale della città. Con una convinzione, un forte senso di orgoglio: «Io sono italiana, mio fratello era italiano». Da ieri sera non è più così: «Oggi ho capito, abbiamo capito cosa vuol dire essere neri. È per questo che hanno ammazzato mio fratello. Oggi, per la prima volta, io mi sento nera ». Alla base di questa convinzione ci sono i racconti degli amici che l'altra notte erano con Abba. «Non ha rubato niente», afferma il padre, Assane Guiebre.
È quello che i ragazzi dicono di aver spiegato anche della polizia, le frasi che hanno fatto mettere nei verbali: «Nessun furto, è una bugia. Una menzogna infame che avranno inventato quei due, forse per trovare una giustificazione. Lo hanno insultato senza motivo. Questa è la verità». Parole di un'intera comunità sconvolta che cerca conforto: «Speriamo che i funerali di nostro figlio siano un'occasione per riflettere, per pensare, perché l'Italia sappia lanciare messaggi decisi e positivi contro il razzismo». La madre di Abdul, Bara Aminata, è rimasta per tutta la giornata di ieri sdraiata sul letto della sua stanza. Una fascia colorata tra i capelli. Parenti e amici che andavano ad accarezzarla. C'è qualcosa che non riuscirà mai a capire: «Come è possibile — continua a chiedersi — che un padre e un figlio commettano un omicidio insieme? Il figlio che insulta, suo padre accanto a lui che picchia. E uccidono un ragazzo di 19 anni. Non è concepibile». Abdul era arrivato in Italia all'età di tre anni, aveva studiato alle scuole di Don Milani, come le sue sorelle. Le medie, poi due anni di istituto professionale. Aveva bisogno di lavorare e quindi si era iscritto a un'agenzia di lavoro interinale. Era da quell'ufficio che di volta in volta arrivavano proposte di impiego. L'ultimo contratto, scaduto un paio di mesi fa, era per un posto da metalmeccanico. Anche in questo Abba era italiano al cento per cento: un ragazzo precario della provincia milanese. Ora tutti lo ricordano per le sue ultime parole. Di fronte a un locale di corso Lodi, il Tiny Cafè, in zona Sud di Milano: alle 5 e mezza del mattino il gruppo decide di andare in un altro bar a chiudere la nottata. C'è un amico con la macchina, ma ha solo due posti. Abba, che è con due amici e due ragazze, dice «non vi preoccupate, noi prendiamo l'autobus». Qualche ora prima, a casa, aveva spiegato con un sorriso: «Stasera farò un po' tardi, non vi preoccupate». Ora sua madre guarda una foto: lei giovane, suo marito accanto che stringe la mano a un bambino. È Abba da piccolo, la camicia color crema abbottonata fin sotto il collo, l'espressione seria. In quella foto ha la stessa età di suo fratello minore. Che si chiama Abdel, ha cinque anni, e ora si muove un po' spaesato per la casa chiedendosi cosa è successo.